A freddo, senza un apparente perché, Clemente Mastella è
tornato a minacciare: «Se c’’è il referendum sulla legge elettorale, mando in
crisi il governo». Da Napoli, col tono allusivo del «ccà nisciuno è ffesso», ha
soggiunto: «Chi gioca al nostro interno sappia che scherza col fuoco, avrà una
risposta molto dura. Fare il ministro della Giustizia mi soddisfa, però prima
vengono il mio partito e la governabilità…». Mastella, vecchio bucaniere della
politica, non spara mai a casaccio. Se ha tirato la salva d’’avvertimento, può
esserci solo una spiegazione: s’è accorto che qualcuno prova a
buggerarlo.
Privatamente il leader dell’’Udeur confida che quel qualcuno
abita a Palazzo Chigi e di nome fa Romano Prodi, l’unico cui la sorte di questo
governo stia veramente a cuore. A Mastella sono giunte voci che il premier sia
rassegnato allo sbocco referendario, che per i «nanetti» (come li definisce il
prof.Sartori) equivale alla pena capitale. Gli incontri che il Professore avrà
entro domani con partiti e cespugli dell’’Unione sarebbero solo un proforma,
ormai la strada è segnata. «A destra e a sinistra è tutta una finta», protesta
il ministro con gli amici, «in realtà Forza Italia e Ds si stanno solo passando
il cerino per andare alle urne senza restare scottati, Berlusconi con la Lega e
Romano con noi».
L’’aria è questa. Mille segnali lo confermano. Tre
giorni fa Bruno Tabacci, centrista e fautore della riforma alla tedesca, ha
ricevuto una chiamata di Prodi. Irritatissimo perché l’’esponente Udc lo aveva
additato a Ballarò come il primo responsabile della privatizzazione Telecom («Lo
sai che non sono stato io, ma chi è venuto dopo di me…», «no Romano, Telecom
l’’hai messa in vendita proprio tu»). Poi hanno ragionato un attimo di riforma
elettorale, e Tabacci non ha avuto l’’impressione di un premier impegnato alla
morte per scongiurare il referendum. Tanto che pure i centristi, ormai,
considerano ineluttabile l’’esito delle urne. E si preparano a contrastarlo con
una campagna astensionista rivolta a quelli che «ridateci la Prima repubblica»,
si stava meglio quando stavamo peggio.
Altri invece, sono già pronti a
cavalcare il referendum. I diesse, ad esempio. Il dalemiano Nicola Latorre l’’ha
apertamente teorizzato con un alto esponente di Forza Italia: «Se si va al
referendum saremo i primi a cavalcarlo. Mica siamo così scemi da fare la parte
di quanti difendono un sistema malato…». All’’ombra della Quercia sono in
tanti a pensarla così. Cominciando dal segretario Fassino. Il segretario Ds ha
espresso una cauta preferenza per il ritorno all’’uninominale, senza
sbilanciarsi troppo. Ma Filippeschi, fassiniano doc, s’’è preso la libertà di
rispondere a Mastella che «le sue minacce sono irricevibili, il segno che le
cose non vanno e che la legge elettorale va profondamente cambiata, come vuole
una larghissima e crescente maggioranza degli italiani». Parole che potevano
essere
tranquillamente scambiate per quelle del radicale referendario
Daniele
Capezzone.
E ancora: ai tre ministri iscritti al Comitato
referendario (Parisi, Santagata e Melandri) nessuno ha ancora ingiunto le
dimissioni, da ministri o da referendari. Fabris dell’’Udeur e Sgobio del Pdci
sono tornati ieri alla carica ma nessuno se li è filati. Semmai tra poco sarà
tutto un pigia-pigia per infilarsi nel Comitato e rivendicare una primogenitura.
Devono ormai solo esaurirsi gli ultimi conati di riforma, con Prodi che vuole
ritoccare la Costituzione e il Cavaliere che gli risponde di no. «Purtroppo c’’è
solo la grande buona volontà del ministro Vannino Chiti e di Roberto Calderoli»,
sospira l’’azzurro Paolo Bonaiuti, «ma di concreto non sta uscendo nulla».
Domani sera, l’’ultimo incontro tra Prodi e la delegazione dell’’Ulivo.
Poi il timer del referendum comincerà a ticchettare.