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9 Giugno 2005

Come pagheremo il prezzo del no

Autore: Sergio Romano
Fonte: Corriere della Sera

Sui grandi temi della procreazione assistita e sui « problemi della vita » gli italiani hanno posizioni diverse. Ma sembrano tutti convinti che si tratti di questioni da affrontare e risolvere nell’ambito della società nazionale.

Lo pensano, paradossalmente, anche le famiglie che hanno adottato un bambino in Romania, hanno « acquistato » un seme in una « banca » inglese o hanno letto con interesse che la legislazione olandese, in molti casi, è particolarmente liberale e merita un viaggio a Amsterdam.

Continuiamo a ragionare, in altre parole, come se la rivoluzione delle comunicazioni non ci permettesse di apprendere rapidamente che cosa sta accadendo nel resto del mondo e come se quella dei trasporti non ci consentisse di andare là dove le nostre esigenze, nobili o ignobili, possono essere soddisfatte.

Per certi aspetti questa contraddizione è comprensibile. Sappiamo che molte frontiere sono scomparse e che una ragazza irlandese, al quinto mese di gravidanza, può liberamente abortire in Inghilterra.

Sappiamo che una coppia omosessuale italiana può sottoscrivere un patto civile in Francia o, fra poco, in Svizzera. E sappiamo che gli specialisti della « morte assistita » in certe città europee avranno probabilmente nei prossimi anni qualche paziente italiano.

Ma questa è casa nostra e vorremmo che certe cose, da noi, venissero regolate secondo lo stile, i gusti e le consuetudini della nostra tradizione. Non possiamo cambiare il mondo, ma non vogliamo che il mondo entri nelle nostre case e ci imponga i suoi cambiamenti. Ecco gli argomenti che possono spiegare le contraddizioni di molti italiani al tempo stesso provinciali e cosmopoliti.

Ma questo atteggiamento presenta qualche inconveniente di cui è bene essere consapevoli. Tralascio il problema delle nuove aspettative familiari e della salute femminile, che pure hanno in questa vicenda una parte rilevante. Mi limito a osservare che il problema della fecondazione assistita è ormai indissolubilmente legato a quello della ricerca scientifica, soprattutto sulle cellule staminali.

Se la legge di un Paese limita drasticamente la ricerca o addirittura vieta quella sulle cellule dell’embrione, i suoi studiosi emigreranno verso università e laboratori stranieri. Se la ricerca produrrà farmaci capaci di aggredire alcune insidiose malattie genetiche, i brevetti saranno stranieri.

Ci asterremo dal produrre quelle medicine o dall’adottare quelle terapie perché derivate da esperimenti che violano i principi dell’ordinamento italiano? Gli italiani che possono permetterselo si faranno curare all’estero: una scelta, come ha ricordato ieri Gianni Riotta, che accentua la differenza del censo fra quanti possono permettersi il viaggio e gli altri.

Ma tutti comunque, ricchi o poveri, scenderemo di parecchi gradini nella scala dei Paesi che accettano le sfide della modernità e vogliono condurre il gioco anziché subirlo.
Saremo allora, su un piano molto più serio, come quelle signore di provincia che aspettavano i figurini del Courrier des Dames prima di farsi confezionare l’abito delle grandi occasioni.

O, meglio ancora, come i veneziani del ‘ 600 quando rifiutarono di costruire galeoni, come nei Paesi del Nord, e preferirono continuare a mettere in cantiere le vecchie galere del buon tempo antico.

Come ha scritto Gianni Toniolo nell’ultimo supplemento domenicale del Sole 24 Ore , un contemporaneo di Shakespeare osservò che le navi inglesi, uscite da Venezia insieme a quelle veneziane, andavano e tornavano dalla Siria due volte « prima che i veneziani avessero compiuto un solo viaggio di andata e ritorno » .