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4 Aprile 2005

Ciampi: “Nei nostri colloqui il rispetto per un’Italia laica”

Autore: Marzio Breda
Fonte: Corriere della Sera

ROMA – Presidente Ciampi: lei è stato tra i primi a rendere omaggio alla salma di Giovanni Paolo II, nella Sala Clementina del palazzo apostolico. Che sentimenti ha provato?
«Mi aspettavo di scorgere nel volto del Papa gli indizi della grande sofferenza che ha patito negli ultimi mesi e negli ultimi giorni. Mi ha molto colpito vedere che aveva i lineamenti distesi, sereni, e persino un colorito diverso da quel bianco-terreo che la morte di solito stende come un velo su un corpo. Questo mi è parso in qualche modo prodigioso, riflettendo sulla sua agonia. C’era un’atmosfera di grande commozione. Anch’io ne ero preso, come tutti».

Si è notato che lei e sua moglie avete dedicato un lungo saluto alle suore polacche ai lati del feretro. Con un abbraccio bagnato di lacrime a monsignor Stanislao Dziwisz, il segretario particolare di Wojtyla.
«Erano, in un certo senso, “la famiglia del Santo Padre” in Vaticano, e lo hanno assistito con una devozione filiale. Avevamo imparato a conoscere bene quel gruppo. Le suore le incontravamo ogni volta che andavamo a colazione dal Pontefice: erano loro a cucinare e a servire in tavola, e prima di congedarci mia moglie Franca passava sempre a salutarle».

E monsignor Stanislao?
«Con lui il dialogo è stato costante, in questi anni. Era il filtro più diretto di Giovanni Paolo II. La comunicazione passava soprattutto per il suo tramite. Se volevamo notizie, le chiedevamo a lui prima che a ogni altro».

Quando lei ha compiuto ottant’anni, riflettendo sullo stato dell’Italia ci disse che era cresciuta come l’aveva sognata da ragazzo: «Né fascista né comunista, libera». Ora, si è detto che proprio l’aver attraversato insieme il Novecento, con l’ascesa e la caduta delle due dittature e con un conflitto mondiale di mezzo, la legava al Papa. Avete mai parlato di questo?
«Sì, è capitato. E non direi che sia successo soltanto perché avevamo la stessa età, quanto per una certa esperienza comune dei duri anni fra il 1920 e il 1940. Per fortuna noi in Italia riuscimmo poi a imboccare la strada della libertà e della democrazia. Lui invece, come tutta la sua cattolicissima Polonia e come l’Est dell’Europa, dovette penare ancora per decenni sotto una dittatura».

Passaggi che avevano lasciato cicatrici nel Pontefice?
«Chiaramente. Infatti ne abbiamo accennato, quando i ricordi riaffioravano e ci raccontavamo di come allora fossero maturati i nostri reciproci convincimenti. Nel mio caso furono decisive le stagioni dell’università e della guerra, specialmente l’inverno tra il 1943 e il ’44 che trascorsi alla macchia sui monti dell’Abruzzo, accanto a un maestro come il filosofo Guido Calogero. “Giustizia e libertà” divenne per me molto più che una sigla politica: fu subito una stella polare, un sentimento».

E nel caso del Papa?
«Per lui credo che sia stata fondamentale, oltre alla grande fede che già possedeva, la vicinanza con il primate polacco, il cardinale Wyszynski».

Dell’Italia di oggi, che cosa le diceva Karol Wojtyla?
«Aveva un grande rispetto della laicità del nostro Stato. Non mi ha mai fatto trovare a disagio per qualche, non dico conflitto, ma tema magari “delicato” nei nostri rapporti con la Santa Sede».

La sua seconda tesi di laurea, in giurisprudenza dopo quella in filologia classica, era dedicata alla questione della «libertà delle minoranze religiose in Italia»…
«E’ così. E qualcuno ci ha voluto vedere la sottolineatura di un imprinting politico-culturale “laico per eccesso”. Almeno così fu definito, mi pare. Il che, secondo quella lettura, avrebbe dovuto rendere difficili i miei rapporti da presidente della Repubblica con la Chiesa di Roma».

E invece, presidente?
«Il problema non si è posto. Le cose erano già state messe in ordine nel 1984. Con un secondo Concordato che, pur prendendo atto di come il cattolicesimo sia la confessione religiosa prevalente nel nostro Paese (ciò che del resto era in linea con gli insegnamenti del Risorgimento), tuttavia cancellava la dizione di “religione di Stato”».

Il sottinteso di questa digressione è che non bisogna confondere la dimensione spirituale e confessionale con la diplomazia internazionale tra capi di Stato. E’ così?
«Esattamente. E tengo molto ad avere un atteggiamento chiaro, a questo riguardo, pur non nascondendo la mia pratica religiosa. Che ho coltivato studiando al liceo dai gesuiti di Livorno, oltre che respirandola in casa: mio padre era devoto di don Bosco, mia nonna lasciò scritto come ultima disposizione del suo testamento un “siate religiosi” che ancora rammento. Tutto questo, in ogni caso, non ha e non deve avere nulla a che fare con il mio ruolo di presidente della Repubblica».

Insomma: nei suoi incontri con il Pontefice vi tenevate su un terreno più alto. Davvero non avete mai toccato problemi come l’aborto, oggetto di parecchie incomprensioni tra il nostro Palazzo e la segreteria di Stato vaticana?
«I discorsi si concentravano su valori di base: la famiglia, la pace, il dialogo tra fedi diverse, l’Europa. E devo dire che quasi sempre ci intendevamo con un semplice guardarci negli occhi. A volte succede di capirsi così, senza ombre né equivoci, tra uomini. Ringrazio Dio come un suo dono prezioso che sia capitato a me, con questo Papa».

L’empatia tra di voi scattò già quando lei si recò per la prima volta Oltretevere da presidente, nel 1999?
«Direi proprio di sì. Giovanni Paolo II mi accolse con una frase che mi colpì, perché dimostrava quanto anche lui si fosse “preparato” su di me: “Lei è nato nel 1920, il mio stesso anno. E’ stato eletto capo dello Stato il 13 maggio, giorno della Madonna di Fatima, e ha giurato il 18, giorno del mio compleanno. Lo sa che potrebbe non essere un caso”».

Un bel viatico, non c’è dubbio.
«Guardi: pronunciò questa frase sorridendo, e mi parve che desse un significato particolare a tutte queste coincidenze. Alle quali si aggiungeva il fatto che entrambi eravamo stati battezzati nel nome di San Carlo. Un’altra volta, all’epoca in cui ero presidente del Consiglio, nel 1993, e l’Italia era sul serio in difficoltà, mi aveva detto: “Augurare pieno successo a lei è inadeguato, perché è il bene comune a essere in gioco”. Una benedizione che lì per lì mi fece sentire le gambe tremanti, e che poi mi diede coraggio».