E’ relativamente normale che, nel processo di messa a punto della legge finanziaria, si attraversino momenti di difficoltà. Quasi sempre, nel mese di settembre, si devono registrare i «non ci sto» dei ministri della spesa, l’insoddisfazione degli enti locali, l’ostilità del mondo sindacale. Quest’anno, però, il livello dello scontento sembra essere più elevato del solito e si accompagna all’assenza di messaggi chiari e forti da parte dei responsabili politici del disegno di legge che si sta completando, in un generale scadimento del dibattito e delle rivendicazioni.
Si deve notare, in particolare, il forte restringimento degli orizzonti. Si poteva immaginare che sarebbe stata colta l’occasione della prima Finanziaria della legislatura per tracciare un ampio quadro di trasformazione dell’economia – e in particolare dell’amministrazione pubblica – da perseguire coerentemente nel corso di un quinquennio; e che il discorso dei tagli, indispensabili per non essere di fatto messi ai margini dell’Europa, si accompagnasse a un discorso di riorganizzazione radicale dei servizi pubblici. Il tutto è invece scivolato quasi subito in una sorta di zuffa, sotto gli occhi perplessi della Commissione di Bruxelles, sui soldi – inevitabilmente pochi – che saranno disponibili nei prossimi trimestri per aumentare le retribuzioni degli attuali dipendenti pubblici, senza alcuna attenzione al futuro.
Era ugualmente ragionevole attendersi che venisse proposto un ridisegno del sistema fiscale e di quello contributivo, eventualmente con una variazione del peso relativo delle imposte indirette e di quelle dirette, tenendo a mente le esperienze di altri Paesi europei a cominciare dalla Germania. L’attenzione si è invece concentrata sui problemi più immediati e più spiccioli dello spostamento di aliquote e di classi di reddito, mentre manca di un disegno di lungo periodo e in un clima che, se non è di «vendetta sociale» come ha detto l’onorevole Berlusconi, contiene però molti elementi di «rivincita sociale».
Siamo di fronte a un quadro più meschino, a una logica in gran parte presa a prestito dalle vertenze sindacali, inadatta alla costruzione di una Finanziaria. Le parti sociali sembrano andare alle consultazioni come si va alle contrattazioni per il rinnovo di un contratto di lavoro, con l’ottica di guadagnarci qualcosa, concedendo il meno possibile, mentre invece l’obiettivo dovrebbe essere quello di definire i contributi armonici di tutti al superamento di una patologia grave che sta facendo dell’Italia la Cenerentola dei Paesi avanzati. Per una parte della maggioranza sorge poi l’interrogativo se intenda davvero partecipare al governo di questo Paese oppure se preferisca rivendicare, obiettivo questo senz’altro legittimo e accettabile ma incompatibile con il primo.
Per superare questo momento di debolezza occorre partire dalla considerazione che questa Finanziaria, anche se, come aveva ricordato tempo fa il presidente del Consiglio, non richiederà «lacrime e sangue» – nel senso di mutamenti sostanziali e traumatici di breve periodo – non può e non deve rappresentare una passeggiata e un premio alla furbizia. Non c’è nessuna torta da dividere, come invece molti si sono illusi ai primi segni di una ripresa che permane debole e potrebbe, purtroppo, rivelarsi passeggera, mentre deve prevalere un’attitudine condivisa a cambiare: cambiare il modo di lavorare, cambiare le procedure, rimettere in discussione diritti acquisiti e posizioni consolidate, tutte cose scomodissime ma anche tutte cose necessarie per consentire all’Italia di contribuire almeno un poco al futuro dell’Europa e dell’economia globale. Se si parte dall’idea che, anche solo per qualcuno, tutto deve rimanere come prima, abbiamo già perso l’autobus.
Ben prima dei balletti delle cifre e delle polemiche sui provvedimenti annunciati, è necessario, quindi, un atteggiamento diverso. Di qui deve derivare una politica economica che si distacchi dalla consuetudine ormai logora dei battibecchi ed esplori vie un po’ diverse da quelle convenzionali. Si è già osservato più volte, su queste colonne, che l’Italia continua a dedicare troppe risorse, pubbliche e private, allo sport e troppo poche alla ricerca e all’innovazione; che concede ai suoi agricoltori facilitazioni fiscali che non può più permettersi; che il costo della politica, a livello nazionale e soprattutto a livello locale, continua a lievitare e raggiunge ormai una quota non irrilevante del prodotto lordo, tra l’altro senza alcun senso del ridicolo, come mostra l’insistenza su privilegi grotteschi come la gratuità, per parlamentari ed ex parlamentari, di barbieri e parrucchieri. Sarebbe necessario pensare a correggere queste anomalie per recuperare al tempo stesso risorse e credibilità così come sarebbe auspicabile controbilanciare, almeno in parte, un fatto negativo una tantum (la sentenza della Corte di Giustizia europea sulla deducibilità dell’Iva sulle auto aziendali, che farà lievitare il deficit pubblico) con la vendita di una moderata quantità delle nostre ingenti riserve auree, come hanno fatto molti altri Paesi europei.
Nell’impostazione della Finanziaria, insomma, occorrerebbero un’apertura e una flessibilità che sembrano invece far difetto a un governo e a un Paese irrigiditi, quasi ingessati, nella ripetizione di un balletto tradizionale ormai consunto. E sarebbe un gran guaio se la Finanziaria 2007 dovesse essere annoverata come l’ennesima occasione perduta.