La più celebre delle opere di tale natura è senza dubbio l'”Apologia di Socrate” di Platone. Ma di grande rilevanza appare, ai nostri occhi di storici della cultura, anche l'”Apologia pro Galilaeo” (1622), in cui Tommaso Campanella sostenne con vigore e coraggio le tesi del grande astronomo perseguitato.
Con “Una storia italiana”, tuttavia, rispetto a questi pur grandi modelli, gli elementi innovativi sono importanti e molteplici, e questo m’induce a segnalarla ai lettori.
L’autore (o gli autori, questo non è dato saperlo), innanzi tutto, in questo caso è anonimo: non ne conosciamo dunque né l’identità né le fonti, sicché il testo, se si prescinde dalle congetture critiche sempre possibili, si presenta come un semplice inquadramento, – una «cornice» alla maniera del “Decameron”, insomma, – della sovrabbondante messe di citazioni dell’autore apologizzato – anzi se il mio discorso tecnicostrutturale è fondato, – sostanzialmente autoapologizzato. Non siamo in grado di dirlo per mancanza d’informazioni attendibili, ma questo sembrerebbe un tipico caso in cui l’auctor (l’Autore) e l’agens (il Protagonista), tendono a coincidere, e dunque, ammesso che le due mani e i due cervelli, se si può dir così, non siano fisicamente gli stessi, in pratica, dal punto di vista dell’invenzione, la voce è una sola, che, con effetti ossessivi davvero notevoli, si racconta, si analizza, si descrive, s’interpreta, si accarezza, e si esalta.
La nostra conoscenza di questo curioso Paese che doveva essere questa Italia all’inizio del Terzo Millennio è troppo limitata per capire quanto sia realmente fondata la «storia» di cui qui si parla. Forse a questo distacco dal tempo si deve l’impressione stilistica che se ne ricava leggendola; se il genere letterario cui il suddetto testo appartiene è, inequivocabilmente, l’apologia, le forme in cui la narrazione si esprime sono piuttosto quelle favolistiche, dalla raccolta “Le mille e una notte” a “Cappuccetto Rosso”, fino ai prodotti allora più moderni di questo longevo filone, da Tex Willer a Capitan Uncino. La sua innegabile efficacia consiste indubbiamente nella piena adozione del canone mediatico in quegli anni dominante, che così recitava: più la spari grossa, più sarai ascoltato e creduto. Chi dovesse ancora pensare che la «grammatica» della fiaba sia di natura razionale, ne risulterebbe ancora una volta disingannato.
Impossibilitati, come abbiamo detto, a operare riscontri sul piano storico (dovette accadere qualcosa in Italia all’inizio di quel millennio, per cui la finzione sostituì da ogni punto di vista il reale, cancellando di colpo ogni memoria del passato e del presente), ci siamo provati a estrarre dal testo medesimo gli elementi fondamentali della storia narrata, affidandoci per il resto all’auspicabile ritrovamento della documentazione successiva. Ecco quanto ne abbiamo ricavato.
Il duplice protagonista – al tempo stesso apologizzato e apologizzante di sé medesimo – è un certo Silvio Berlusconi, le cui capacità, attitudini e poteri vengono presentati, in ogni possibile e immaginabile pratica mondana, come assolutamente illimitati. Se applicassimo a lui uno degli schemi favolistici di Vladimir Propp (un autore russo, ma fortunatamente non marxista), lo definiremmo un Principe dalla sconfinata e benefica potenza, destinato perciò a governare senza bisogno d’intermediazione umana alcuna. La sua storia, però, per quanto eccezionale è anche ripetibile, e questo ne fa la forza: essa, infatti, è sconfinata nelle sue realizzazioni, ma del tutto mediocre nei suoi contenuti e nei suoi valori. E’ una favola, ma può essere imitata. Egli infatti: 1 E’ venuto dal nulla; 2 Nonostante ciò, ha acquisito una ricchezza immensa, anzi «ha creato un Impero» (n. 42): 3 Domina il campo della comunicazione televisiva, è stato un mago dell’«immagine» e della «finzione»; 4 Sa cantare, conosce e ama i classici, scrive prefazioni a testi di svariata natura e altissimo impegno, come pochi professori saprebbero fare, ama l’arte, fa il collezionista, ha una moltitudine di ville splendide; 5 E’ generoso, giusto, buono, leale, forte, amante della famiglia, protettore dei deboli, magnanimo con gli avversari; 6 Ha trovato modo di occuparsi con successo anche del gioco del calcio, ricostruendo una illustre squadra andata a rotoli («Con Berlusconi cambia tutto, anche il modulo di gioco: si passa a una nuova zona veloce, con un pressing asfissiante»); 7 Per generosità vuole governare il suo Paese, e per farlo non ha bisogno di nessuno, perché Lui è il suo Partito, Lui è il suo Schieramento, Lui è i suoi alleati, Lui è il suo Lui e Lui è il suo Dio.
In conclusione: in ogni «apologia» c’è, come ho accennato all’inizio, un elemento difensivo, una defensoria, come tecnicamente si dice. La novità straordinaria di “Una storia italiana” è che in essa non c’è nulla di difensivo, perché l’ignoto Autore pensa che non esista colpa, anzi, pensa che non esista la Colpa, perché tutto è giustificato dal senso missionario dell’Eroe: anzi, tutto è giustificato in partenza, e di conseguenza ciò che non si può giustificare, come nelle migliori costruzioni apologeticofavolistiche, è taciuto.
Mi azzardavo, all’inizio, a parlare, più che di un vero ingresso, di un presumibile «rientro» del genere nell’ambito della letteratura italiana (siccome non conosciamo gli accadimenti degli anni successivi, non possiamo neanche sapere se il libro in questione sia diventato, come sembrerebbe aspirare, testo unico nelle scuole di quel davvero fantastico Paese). Ci giunge vaga notizia, infatti, che ci sia stata, nella precedente storia italiana, una fase in cui l’apologia era già stata ampiamente praticata. Fu, a quanto sembra, quando un altro Capo fu chiamato a raccontare a quel Paese la sua «favola bella».
Ma allora, almeno, ciò accadde quando quel Capo aveva già scalato e conquistato la Piramide del Potere. Si direbbe che in questo nostro più recente caso la «favola bella» sia servita a scalarla, la Piramide del Potere. Si direbbe che l’equazione favolistica abbia funzionato nel modo più semplice ed efficace: fate in modo che a colui che tutto può sia consentito di potere tutto. Ma chi tutto può se gli si consente di potere tutto, non ha più limiti, neanche nelle favole. Nacque così il terrore degli uomini comuni di avere a che fare con l’illimitata potenza dei semidei, e il loro desiderio di rimettersi nelle mani di altri uomini comuni, dalle modeste, limitate, controllabili capacità umane. E la storia cambiò il finale.