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5 Luglio 2006

C’è un paese che non vuole cambiare

Autore: Luca Ricolfi
Fonte: la Stampa

PRODI aveva promesso di stupirci, e non si può dire che non ci sia riuscito.

La raffica di liberalizzazioni varata in questi giorni non era attesa così presto, e comunque ha già ottenuto due importantissimi risultati politici.

Innanzitutto ha cancellato l’impressione di incertezza e inconcludenza trasmessa nel primo mese di governo: non sappiamo ancora se questo basti a instaurare una vera e propria «luna di miele» fra Prodi e l’elettorato, ma l’inversione del clima d’opinione è tangibile. In secondo luogo ha gettato lo scompiglio nella Casa delle libertà: di fronte alle misure del pacchetto Bersani i sinceri liberali non hanno potuto far altro che plaudire al nuovo corso, rammaricandosi semmai di non aver avuto il coraggio di fare altrettanto quando erano al governo.

Tutto bene, dunque?
Sì, anche se la reazione delle categorie colpite – soprattutto taxisti, farmacisti, notai – mostra quanto impervia sia, in Italia, la strada del cambiamento. Chi in tutti questi anni si è chiesto perché Berlusconi non abbia fatto (quasi) nulla in simili materie, ora ha la risposta: se avesse mosso un dito, avrebbe scatenato l’inferno che ora si annuncia.
Che le categorie interessate reagiscano difendendo i propri interessi, e invocando strumentalmente la concertazione, rientra nell’ordine delle cose.

E poiché il governo sta tutelando l’interesse generale, non si può che sperare che esso sappia far valere le sue ragioni nel confronto con le categorie colpite. Ciò detto, non è forse inutile segnalare alcuni elementi che minano o potrebbero indebolire la pur meritoria azione del governo.

Primo. E’ difficile sfuggire all’impressione che il governo abbia deciso di partire da queste categorie perché il loro apporto elettorale è minimo. I notai sono 5 mila, i taxisti meno di 20 mila, le farmacie poco più di 15 mila. Il loro peso complessivo è dunque, più o meno, di 1 elettore su 1000 votanti. Possiamo indignarci per la natura corporativa delle loro proteste, come a suo tempo ci siamo indignati per quelle dei forestali calabresi, dei controllori di volo, degli autoferrotranvieri. Ma resta il fatto che ogni richiesta di sacrifici è tanto più debole quanto più è selettiva, ossia mirata a gruppi e categorie particolari. Oggi tutti (giustamente) ce la prendiamo con i taxisti: ma che cosa diremmo domani, noi indignati di oggi, se meritocrazia e concorrenza entrassero davvero nelle scuole, nelle università, negli ospedali, nel mercato del lavoro? Paradossalmente il messaggio del governo sarebbe più digeribile se il rischio non fosse concentrato su alcune categorie-simbolo, ma investisse credibilmente un po’ tutte le categorie di cittadini: i taxisti si sentirebbero meno capro espiatorio, e chi oggi è risparmiato dalla prima ondata non maramaldeggerebbe troppo, perché saprebbe che lo tsunami non è finito.

Secondo. Il fatto che l’autodifesa degli interessi colpiti sia dettata dalla convenienza non annulla ipso facto tutte le argomentazioni usate dalle categorie. Alcune di tali argomentazioni andrebbero valutate con rispetto, senza indulgere in atteggiamenti ideologici, tipo «aboliamo tutti gli Ordini professionali», o «liberalizziamo completamente le licenze». Con gli Ordini professionali il problema che il governo deve affrontare non è quello di trovare il coraggio politico di sopprimerli tutti, ma quello di trovare il modo di tutelare sia l’interesse dei cittadini a tariffe più basse (meno barriere all’entrata) sia l’interesse dei cittadini a ricevere servizi di qualità (vigilanza su truffe e ciarlatani). Quanto ai taxisti, fa benissimo il governo a favorire un aumento del numero di taxi circolanti, ma non dovrebbe scordare che esistono anche altre strade – meno punitive nei confronti dei taxisti – per aumentare l’offerta e abbassare le tariffe, specie nelle grandi città. Ad esempio: permettere a tutti i taxi di lavorare nelle ore di punta (cosa spesso impedita dai Comuni), o far rispettare le corsie preferenziali agli automobilisti normali (con conseguente dimezzamento della durata media dei percorsi, riduzione del prezzo della corsa, aumento dei taxi disponibili). Il governo di centro-sinistra ha già dato ampia prova, in passato, di inclinare ad atteggiamenti illuministici, pedagogici, quando non di superiorità morale: proprio perché oggi è dalla parte della ragione, farebbe bene ad ascoltare con estrema attenzione anche le (buone) ragioni delle categorie che protestano.

Terzo. Infine, poiché si prospettano sacrifici, un tocco di sobrietà e di autolimitazione non potrebbe che far bene alla politica, nonché all’immagine del governo. Sappiamo tutti che i conti pubblici dipendono in misura limitata dai costi della politica, e in misura minima da quelli dei parlamentari. E tuttavia, dopo la «carica dei 102» e il miracolo della moltiplicazione delle poltrone, un piccolo segnale che andasse in direzione opposta, limando qualche privilegio e aprendo una delle corporazioni più chiuse del nostro Paese, sarebbe gradito. Molto gradito.