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15 Agosto 2005

Caselli: perché soffro della «sindrome Biagi»

Autore: Gian Carlo Caselli
Fonte: La Stampa

Quelli che i magistrati sono pazzi sennò non farebbero questo mestiere gongoleranno. Ma debbo confessare che soffro di una strana sindrome: mi sento come Enzo Biagi. Straparlo? Forse. Ma quel che si è attivato contro di me per impedirmi di concorrere alla Procura nazionale antimafia, a colpi di decreti legge ed emendamenti escogitati apposta per colpirmi personalmente (come il relatore, senatore Bobbio, ha candidamente confessato), non è mai successo nella storia della Repubblica. E mi ricorda proprio Enzo Biagi, licenziato – dicono le cronache – con un decreto «bulgaro». Io faccio il magistrato ed il potere politico non può brutalmente ordinare di licenziarmi (almeno fin quando l’ordine giudiziario non sarà un’azienda; o fin quando – nota per i soli addetti ai lavori – eventuali sviluppi della cosiddetta regola del 13 non porteranno il Csm su nuove sponde). Ma può «bombardarmi» con leggi speciali, riuscendo – in ogni caso – a creare una situazione che vizia in maniera pesante i concorsi regolarmente indetti dal Csm e finisce per turbare la stessa serenità del giudizio di merito. Attenzione, però: non sono tanto presuntuoso da pensare di meritarmi tutte queste «attenzioni». So bene infatti che il vero bersaglio non è la singola persona. Come per Biagi, l’obiettivo vero è l’indipendente esercizio del proprio ruolo professionale. Ecco perché oso parlare del mio caso. Perché non è un caso personale. Si tratta della prima sperimentazione («in corpore vili», cioè su di me…) della controriforma dell’ordinamento giudiziario.


Chiunque abbia occhi per vedere si rende subito conto che la controriforma vuol colpire i giudici. Quelli colpevoli di aver fatto il loro dovere non solo verso i deboli e gli emarginati, ma anche verso le deviazioni del potere, perciò da sottoporre a controllo ad opera di un potere politico che per se stesso di controlli non ne accetta. Ecco quindi che il nuovo ordinamento dissemina vari ostacoli per chi voglia accertare la verità in tutte le direzioni, ricorrendone i presupposti in fatto e in diritto, senza soggezioni diverse dalla legge. E’ un percorso a tappe: reclutamento e progressione in carriera congegnati in modo da favorire chi è «omogeneo»; svuotamento dei poteri del Csm con conseguente indebolimento della sua funzione di tutela dell’indipendenza della magistratura; esercizio dell’azione penale riservato ai soli Procuratori della Repubblica, veri «mandarini» della giustizia; previsione di forme, indirette ma incisive, di controllo politico del governo sull’attività giudiziaria; predisposizione di una «autostrada» che inesorabilmente porterà alla separazione delle carriere e quindi a forme di dipendenza della magistratura dall’esecutivo. Nella controriforma tutto concorre a disegnare, sul magistrato proposto come «modello», lo stigma del conformismo: nemico giurato della rigorosa (e spesso scomoda) ricerca della verità a 360°.


Sono convinto (lo ammetto: con poca modestia, se non addirittura con una certa arroganza…) che i miei guai derivino proprio dal fatto che andando a lavorare alla Procura di Palermo dopo le stragi del 1992 ho rifiutato – facendo «squadra» con tantissimi valorosi colleghi – di essere conformista. Di conformarmi cioè all’andazzo di denunziare le collusioni fra mafia e politica in teoria, per poi negarle (o sottodimensionarle) nelle prassi giudiziarie. Non credo infatti che il problema siano – ci mancherebbe altro! – le centinaia di ergastoli e l’infinità di anni di reclusione che abbiamo contribuito a far infliggere ai mafiosi dell’ala militare di Cosa nostra. Oppure i 10.000 miliardi di vecchie lire che rappresentano l’ammontare complessivo dei beni sequestrati ai mafiosi dal 1993 al 1999. (Attenzione: nessun merito da rivendicare; abbiamo semplicemente fatto il nostro dovere, come una moltitudine di altri magistrati). Quel che non ci viene perdonato, invece, temo sia il rigore con cui – nel rispetto delle regole – si è andati oltre l’ala «militare» di Cosa nostra, contribuendo a far sì che in numerose sentenze, alcune definitivamente confermate dalla Cassazione, fosse (per la prima volta con tanta ampiezza e forza) univocamente affermata e dimostrata la sussistenza di fatti gravissimi e di precise responsabilità personali nel campo delle collusioni fra mafia, politica e affari, collusioni che da sempre costituiscono la spina dorsale del potere di «Cosa nostra». Fatti, non teoremi. Fatti non inventati ma realmente accaduti (come riconoscono tutte, proprio tutte, le motivazioni delle sentenze, quale che sia il loro dispositivo). Fatti che era obbligatorio perseguire e portare a giudizio, se la legge – ne sono ancora testardamente convinto, anche se costa tanti fastidi – è davvero uguale per tutti.


Invece di innescare – come sarebbe stato doveroso – rigorosi percorsi di «bonifica politico-morale», prosciugando finalmente la palude in cui (da oltre 150 anni!) si irrobustisce e nuota il pescecane mafioso, utilizzando anche le risultanze giudiziarie acquisite, ecco l’acqua che va verso l’alto. Ecco la «celebrazione» di un vero e proprio «processo» alla stagione che ha seguito le stragi del ’92. Ecco la sistematica aggressione dei magistrati che (pur coi loro limiti: io conosco i miei, ed è un capitolo molto… ricco) han cercato di raccogliere la scomoda eredità di Falcone e Borsellino. Ecco un clamoroso sterminio della verità, con la cancellazione dei risultati ottenuti (leggere le sentenze e partire dai dati di fatto che esse offrono è ormai un lusso per pochissimi). Ecco la regolare beatificazione degli imputati «eccellenti», ancorché responsabili – a livello penale o politico-morale – di fatti gravissimi e l’altrettanto regolare aggressione ai magistrati che non si decidono a chinare la testa. Vien da pensare che la verità e certa politica possano essere incompatibili; che autoassolvendosi in perpetuo (o addirittura pretendendo di sottrarsi al controllo di legalità) certa politica tenda a cancellare la linea di confine fra lecito ed illecito, morale ed immorale. C’è da temere che possa avere qui la sua origine la gragnola di colpi che sono costretti a subire i magistrati che tengono la schiena dritta.


Mi chiedo se sia assurdo, se sia altezzoso o tracotante – qualcuno certamente lo sosterrà – proiettare il cosiddetto «caso Caselli» (perché non ne sfugga la reale portata, che va ben oltre le singole persone) su questo scenario più vasto, che fa dell’emendamento Bobbio un coerente codicillo della controriforma dei giudici? Può anche darsi che tale richiesta confermi la «sindrome Biagi»… In ogni caso, credo vi sia materiale sufficiente per porsi alcune domande. E’ giusto legiferare ispirandosi alla logica del «regolamento di conti»? E’ giusto sovvertire tutte le regole generali, travolgendo dai 600 ai 1500 magistrati (tanti ne coinvolge l’emendamento Bobbio) per colpirne uno solo? I garantisti, o sedicenti tali, non dovrebbero inorridire e armarsi per una santa crociata? E’ giusto tradurre in cifra operativa il nuovo ordinamento, di normalizzazione dei giudici, applicandolo concretamente ad un singolo caso anche per lanciare un generale… avviso ai naviganti (attenti a voi, se volete star tranquilli: non commettete l’errore di interpretare il vostro ruolo in maniera troppo» indipendente)? Stavo per aggiungere che la «questione morale», di cui tanto si parla in questi giorni, passa anche di qui. Addirittura stavo per aggiungere che decreti legge ed emendamenti «contra personam» potrebbero leggersi come sintomatici di un’involuzione del sistema verso l’impronunziabile, politicamente scorretta e perciò vietatissima parola «regime». Ma mi sono fermato: perché sentivo già, nell’aria, le sirene dell’ambulanza della neurodeliri. Altro che «sindrome Biagi»!