Prima ancora del vertice degli otto Grandi, che s’è appena concluso a Gleneagles in Scozia, il presidente Bush e le televisioni a lui legate come la Fox News erano stati chiari. Il nostro problema numero uno non è l’Africa, non è l’uscita di vasti continenti dall’impotenza che nasce dalla povertà, non sono neppure l’iniquo commercio tra Nord e Sud o la protezione del clima nel pianeta – andavano ripetendo prima e hanno ribadito trionfalmente dopo.
Il nostro primo problema è stato, è e sarà uno solo – compatto, rotondo, senza interne contraddizioni o mescolanze tra diversi elementi – ed esso porta il nome di guerra globale al terrore globale.
Cominciata dopo l’11 settembre 2001, prolungatasi prima in Afghanistan poi in Iraq, la guerra è un tutto che agisce in nome di ciascuno di noi e pretende rappresentarci in blocco.
Nulla esiste al di fuori di essa, che abbia peso o utilità. Per la forma che possiede, per lo spazio che occupa, per la materia impenetrabile di cui è formata, la guerra globale – o piuttosto globulare – coincide per intero col mondo sferico che abitiamo.
Tutti gli agenti morali di questo mondo sferico – i Capi di Stato o governo che muti assistevano al compianto pronunciato da Blair a Gleneagles, giovedì – hanno in realtà l’usanza di parlar non tanto chiaro, quanto perentorio. Sanno in anticipo quel che va fatto, son sicuri di quel che finora hanno intrapreso, vedono nel futuro senza coltivar dubbi.
Il mondo occidentale prevarrà contro il nemico, l’atto terroristico ci rende fragili e rivela la nostra vulnerabilità, ma per fortuna noi schieriamo truppe e continueremo a schierarle finché avremo vinto.
Anche Bin Laden o i suoi successori amano simile linguaggio. Sicché non stupisce che i nostri giornali televisivi, quando accennano a Bin Laden, gli affibbino l’appellativo di Grande Saggio.
In Joseph Conrad, che al terrorismo ha dedicato uno splendido libro (L’agente segreto, 1906) la vera saggezza è di ben altra altra natura: «Non è mai sicura di nulla, in questo mondo pieno di contraddizioni».
Ma il nostro mondo è globulare, e i Grandi Saggi che fingono di metterlo in ordine non sanno neppure cosa il dubbio sia: né ai vertici dell’organizzazione che soprannominiamo Al Qaeda, né ai vertici dell’occidente o della Russia di Putin che in questi giorni hanno preteso rappresentarci.
Chi parla perentorio non ammette né indugi né deroghe, né auto-correzioni né obiezioni e neppure cambiamenti di rotta. La perentorietà è l’ultimo stadio, il verbo definitivo che non ammette più rimedi. Nasce da peremptus, participio passato del verbo perimere che vuol dire distruggere.
Può darsi che alla lunga sia appropriato, non tanto fare le guerre (ma contro quale minaccia che sia localizzabile e minimamente comprensibile? Contro quali Stati o partigiani decisi a farsi Stati?) quanto dimostrare simbolicamente che si è capaci di farle, che la democrazia non è sinonimo di spirito imbelle ma può anche esser violenza (i greci antichi lo sapevano, anche se nel frattempo l’abbiamo scordato).
Ma nel frattempo non percepiamo altro che i risultati negativi o meglio peggiorativi di queste certezze perentorie: due guerre ingaggiate in Asia meridionale e nel Golfo, e una guerra che l’Occidente tollera da anni senza reagire (in Palestina) non son bastate tra il 2001 e oggi a frenare il terrorismo.
Quel che potrebbe rivelarsi appropriato nel lungo periodo miete, nel medio periodo e nella percezione immediata, centinaia di vittime: e la percezione del vissuto effettivo non è irrilevante, nella nostra civiltà.
È questo che ha colpito, nei giorni scorsi a Londra: senza nutrire dubbi su se stessi, senza scorgere contraddizioni nel mondo che governano, i capi occidentali più Putin che all’occidente è stato accorpato nonostante la guerra di distruzione anti-islamica in Cecenia hanno reagito come quei giocattoli di latta che si ricaricano, e ricaricati ripetono sempre l’identico movimento o l’identico suono per cui sono stati programmati.
Come prima cosa urge dunque una pulizia delle parole, per veder chiaro in ciò che accade. I Grandi Saggi non sono né grandi né saggi, ma somigliano a giocattoli incapaci d’adattarsi a eventi mutanti. L’esibita determinazione è falsa, e la risposta ai mali presenti è risposta apparente che anzi li dilata.
Ma soprattutto, urge capire la vera natura della violenza che s’abbatte su metropoli cosmopolite come New York o Londra; che cosa sia quel quid che irrita le cellule terroriste sino a farle impazzire; quale sia il bersaglio autentico degli attentatori.
Dal bersaglio infatti dovrà in fin dei conti venire la risposta, è il bersaglio che dovrà ripensare l’odierno mondo frantumato, sia nelle parole che nelle azioni auspicate. Il bersaglio del terrorismo oggi non sono né governi né Stati, anche se le azioni condotte da questi ultimi (le guerre contro nazioni musulmane) scatenano l’odio islamico radicale.
Ma il vero bersaglio sono le società nella loro autonomia dalla politica, sono i loro costumi e modi di vivere, come Blair stesso ha ricordato. Scagliarsi contro di esse è un mezzo per realizzare l’ossessivo disegno degli attentatori: il perseguimento non di un’azione politica, ma l’ostentazione esistenziale di un’identità che reputano negata.
In altre parole: siamo tutti noi, singoli o comunità d’individui, a rischiare la vita come altrettanti soldati, esposti a un’offensiva non tatticamente ma strategicamente rivolta contro i civili. E siccome in democrazia il popolo ha qualcosa da dire, questo qualcosa vale la pena dirlo, oggi, costringendo i governi a non ignorarlo.
Il crimine non è contro Blair o Berlusconi o Bush. È contro i cittadini e contro i gesti quotidiani cui sono abituati: prender l’autobus o il metrò, far l’amore o non farlo, divertirsi o no, vestirsi in un modo o nell’altro, sentirsi liberi dei movimenti, e non per ultimo aver fiducia nel vicino o non averla.
Tutti gesti che con la politica non hanno alcunché da spartire, e che sulla scia del terrorismo sono d’un tratto sempre più politicizzati e controllati. Gli attentati sono un’immane offensiva contro le nostre vite private, e contro la maniera in cui riteniamo di organizzarle indipendentemente dal potere pubblico.
Il terrorismo non s’apparenta ai dispotismi novecenteschi perché non distingue tra Stati e società: società che il vecchio totalitarismo voleva persuadere. È invece totalitario come interferenza cruenta nella vita privata di ciascuno. Nei totalitarismi religiosi o ideologici non c’è spazio, per il privato dell’individuo adulto.
Così come non c’è spazio per soluzioni dei conflitti che non siano mutuate dalle guerre contro nemici assoluti. Tutto è guerra, appunto: compatta palla di guerra. Se i governi e le stesse società lasciano che il terrorismo s’appropri sempre più di questi due spazi, resistere al terrore sarà sempre più difficile e nessuna vittoria bellica servirà.
La centralità e la custodia dell’uomo privato è forse la risposta essenziale da dare alle due sfide, dopo quattro anni di imprese militari che non hanno prodotto risultati e hanno anzi rafforzato la diffusione terrorista.
Pensare i cittadini come cruciale bersaglio vuol dire riaprire quello spazio che il totalitario toglie al privato e alle politiche non-belliche, e muoversi su due fronti: difendendo davvero e non solo a parole il modo di vivere (way of life) di ciascun cittadino, e meditando sulle strategie da attuare in alternativa o accanto alla monistica sfera bellica che pretende di inglobare, spiegare e rappresentare l’intero pianeta.
Difendere davvero il modo di vivere dell’uomo privato (figura tipica della democrazia liberale) implica che la politica non diventi tutto nella nostra vita, cancellando il confine col pubblico. Certo, alcune restrizioni sono necessarie, e anche rassicuranti per tutti.
Ma il mutamento non può stravolgere le libertà private sino a schiacciarle, e a liquidare la tolleranza del diverso su cui è fondata l’abitudine ad aver fiducia nel vicino di casa, di viaggio, di lavoro, di svago. Non è questa via prudente quella scelta dai governi neoconservatori e dai loro sostenitori in Europa, ma è anzi la via contraria.
Le società si sono non solo militarizzate, come sostiene in America il cattolico Andrew Bacevich, ma anche il pensiero sulla democrazia è stato rinchiuso e impoverito ad opera di molti governi, compreso il nostro.
Questo è avvenuto in due modi: riportando alla minore età la società (sottolineando continuamente quanto sia vulnerabile, proprio quando essa dimostra eccezionali capacità di resistenza e sangue freddo) e non vedendo che il suo stesso modo di vita può essere un’arma.
La guerra anti-terrore ha avuto come conseguenza anche questa cecità, unita a un paternalismo protettivo che infantilizza i cittadini fino a volerne guidare le coscienze. Ha avuto come conseguenza una bizzarra cultura del trauma, che ci trasforma tutti in infermi bisognosi di terapie di consolazione psicologica, di riaggiustamento della personalità, infine di superiori guide morali.
La reazione degli abitanti di Londra, la loro calma impassibile, la loro normalità che fa tanto pensare al modo in cui risposero ai bombardamenti di Hitler, è la dimostrazione di quanto siano in effetti resistenti ed elastici i cittadini: ben più di quanto suppongano i governi.
Non a caso usano anche un linguaggio diverso da quello del potere: non bellico ma civile. Le stazioni di metrò colpite son subito state chiamate dai poliziotti «luoghi del delitto», che è un termine da crimine comune.
Avendo dimostrato di non saper proteggere le vite dei cittadini, i governi in questi anni si sono impiegati ad agire e interferire ancor più nella sfera delle vite private, quasi si trattasse di creare da zero una nuova moralità pubblica. In questo non sono stati del tutto dissimili dai terroristi: il confine tra pubblico e privato tende a esser abolito.
Di qui l’ampia offensiva contro i diritti e contro le regole di convivenza che son stoffa delle nostre civiltà: è in concomitanza con il terrorismo e per dissimulare l’inefficacia dell’azione antiterrorista che ci si è gettati su battaglie moralizzatrici che attizzano la cultura del sospetto, nella pòlis.
Il ministro dell’Interno francese Sarkozy, politico in ascesa, è giunto sino a dichiarare che «tra vita privata e pubblica non c’è alcuna differenza», e che l’idea stessa di uno spazio riservato al privato «è senza senso». La vita privata non è solo salire sugli autobus e scendere.
È tutta la leggerezza-pesantezza del vivere metropolitano, come ben descritto da Marcello Sorgi a proposito di Londra. Come dice Rushdie, quel che imbestialisce il terrorista non è la nostra tecnologia (che essi adoperano) ma è la commistione tra serietà e frivolezza, presente nelle nostre metropoli: «Per dimostrargli che ha torto, dobbiamo prima di tutto essere certi che ha torto.
Dobbiamo metterci d’accordo su quello che ci sta veramente a cuore: baciarci in luoghi pubblici, i panini al bacon, il non essere sempre d’accordo, la moda ultimo grido, la letteratura, la generosità, l’acqua, una distribuzione più equa delle risorse della terra, i film, la musica, la libertà di pensiero, la bellezza, l’amore.
Queste saranno le nostre armi. Li sconfiggeremo non facendo la guerra, ma con la maniera impavida con la quale sceglieremo di vivere. Come sconfiggere il terrorismo? Non siate terrorizzati». (Guardian, 6 ottobre 2001).
Cedere al terrorismo non è solo esser pacifisti-neutrali. È anche mettersi a insegnare moralità varia, quando la politica non sa più far molto. È mettersi a dar voti e pronunciare anatemi, come il presidente del Senato Pera quando chiama capricci le unioni gay. Può darsi che la parola matrimonio non sia adatta per gli omosessuali.
Ma le famiglie sono ovunque in crisi, ovunque si cercano nuovi modi per vivere in compagnia un mondo non solo difficile ma mortifero, e dare a questi dilemmi il nome di capriccio è integralismo, leggero ma pur sempre integralismo.
Venendo alla seconda risposta cittadina, si tratta di rifiutare l’estensione esclusivista della sfera militarizzata: spingendo i governi a cercare più variegate strategie, e a riconoscere che la scelta bellica avvia nell’Islam processi nuovi ma anche regressioni stile iraniano, e comunque non protegge l’incolumità della popolazione in Occidente.
Bisogna indurli a fare qualcosa di serio sulla povertà del mondo: un male tutt’altro che secondario, contrariamente a quel che dice Fox News che s’è felicitata d’un attentato che ha «restituito priorità all’anti-terrorismo» e relegato in secondo piano Africa e clima.
Bisogna spingerli a escogitare condotte complesse verso l’Islam: sia integrandolo meglio nelle nostre società, sia incorporando alcune grandi nazioni musulmane nel governo del mondo (G-8).
Le diagnosi e gli interrogativi non mancano: vale la pena finire con intelligenza le guerre in corso, e abbandonare i nostri egoismi commerciali. Utili indicazioni e documentazioni si trovano su un sito aperto recentemente da un gruppo di ricercatori a Milano (
http://www.contropagina.com).
I terroristi non hanno in mente di costruire un mondo migliore, ma di vendicarsi di un mondo che ritengono ingiusto. Anche questo conviene sapere: il loro scopo è di «aprire una prima falla nella solenne facciata del grande edificio di concezioni legali dietro cui si nasconde l’ingiustizia atroce della società» e di rivelare «la vera natura del mondo, il carattere artificioso, corrotto e blasfemo delle sua moralità», scrive ancora Conrad.
Hanno in mente di render deboli le democrazie, rafforzando la sicurezza a scapito delle libertà e dell’autonomia della vita privata che aborrono. Per l’esperto di jihad islamico Juan Cole (nel sito citato è pubblicata un’intervista interessante) noi siamo quel che era La Mecca, agli occhi dell’Islam primigenio: una civiltà fondata sul commercio, secolarizzata, pagana, anche frivola e capricciosa.
Più che americani, siamo eredi dell’antica Atene, dell’antica Roma, dell’antica Gerusalemme, e dell’antica Mecca con cui l’Islam dopo tanti secoli – a differenza del cristianesimo nei rapporti col mondo pagano – ancor oggi non s’è riconciliato.