La campagna di questo governo sulle
liberalizzazioni dovrebbe registrare, se Prodi riuscirà a comporre lo
scontro Rutelli-Bersani emerso ieri sera, un avanzamento significativo.
I provvedimenti che saranno varati dal Consiglio dei ministri
susciteranno certamente le proteste di alcune categorie, si
scontreranno con resistenze ostinate, anche se mascherate da ipocrite
adesioni, in altri settori, ma troveranno un largo consenso da parte
della grande maggioranza degli italiani.
Sarebbe sbagliato
sottovalutare il valore di questo generale clima favorevole alla
rottura di società profondamente corporativa come la nostra.
Innanzitutto perché, senza la spinta di un’opinione pubblica convinta
della necessità di un piano di liberalizzazione dei mercati e di uno
sviluppo della concorrenza in campi che finora ne hanno avuto molto
poca, la battaglia rischia di essere perduta, prima ancora di
cominciarla. La forza degli interessi colpiti e la loro estensione nel
sistema economico-sociale italiano frapporranno ostacoli molto alti e
insidiosi alla concreta applicazione di questi principi.
Al di
là dell’importanza strumentale di questo ampio consenso alle
liberalizzazioni, è significativo, inoltre, come sia stata efficace la
diffusione del tema fuori dai ristretti circoli universitari, dove
negli anni passati si dibatteva tra soli tecnici, fino a imporla
nell’agenda della classe politica come esigenza prioritaria. Un
cambiamento culturale notevole, soprattutto nei partiti del
centrosinistra e nel loro tradizionale bagaglio di miti e riti. L’onda
del favore popolare, però, si potrebbe smorzare rapidamente se gli
effetti dei provvedimenti annunciati dovessero ridursi a colpire
interessi di settori marginali e circoscritti della nostra società,
simbolici totem da sacrificare come alibi all’impotenza nei confronti
dei veri, grandi centri di potere corporativo, quelli che controllano
l’energia, il gas, l’acqua, lo smaltimento dei rifiuti, i trasporti
locali, il sistema farmaceutico-
sanitario. Questi sono i settori
dai quali le imprese, soprattutto quelle medio-piccole, si aspettano
vantaggi sui costi per competere su un piano di parità con le aziende
straniere nei mercati internazionali, ma anche in quello nazionale. Da
questi campi il cittadino consumatore, specie quello a più basso
reddito, spera un aiuto per alleggerire bollette e spese che gravano
sui conti familiari, come sappiamo, per molti italiani in precario
equilibrio.
Ecco perché, anche se oggi il governo riuscirà a
risolvere il contrasto tutto interno al campo riformista tra Margherita
e Ds, sarà imprudente gridare alla vittoria dei liberalizzatori. I loro
avversari, infatti, potranno concentrare la controffensiva sui due
punti deboli del processo italiano verso una maggiore liberalizzazione
della nostra società: il Parlamento e gli enti locali. Sul primo si
eserciteranno le più svariate lobby, del resto smaliziate e abituali
sirene dei più importanti palazzi romani. Già la navigazione di alcuni
disegni di legge improntati ai principi della liberalizzazione si è
dimostrata perigliosa, da quelli sulle professioni, che procedono con
annacquamenti progressivi, a quelli più importanti, sull’energia o sui
servizi pubblici locali. Ma anche la conversione in legge dei decreti
sarà a rischio, con effetti di grave confusione sulle norme nel
frattempo in vigore.
L’ostacolo più insidioso e potente, però,
anche perché sarà più abilmente mascherato, verrà dalle Regioni e dai
Comuni. Intorno a questi enti si sono formate, infatti, vere fortissime
concentrazioni di potere, quelle che esercitano la concreta gestione
della sanità pubblica, dell’energia e degli altri servizi, dai
trasporti locali allo smaltimento dei rifiuti. Governatori e sindaci,
assieme ai leader delle loro maggioranze, influenzano la selezione
degli amministratori, infeudano i consigli di gestione, ne suggeriscono
le più importanti scelte strategiche. Le risorse che tali società
riescono a garantire agli enti locali sono sempre più determinanti per
i loro bilanci. L’apertura a una reale concorrenza in tali settori e
nei mercati che gravitano attorno al sistema della sanità pubblica, che
ormai è del tutto in mano alle Regioni, suscita, perciò, apprensione e
allarme negli enti locali. È del tutto comprensibile come sia più
facile per la Margherita sostenere la liberalizzazione di questi
settori e più arduo per i Ds, che detengono in periferia la maggior
parte delle amministrazioni locali, superare obiezioni e resistenze dei
loro quadri. La forza di queste preoccupazioni sulle dirigenze centrali
dei partiti, a maggior ragione su quello più strutturato e diffuso sul
territorio, i Ds, è sempre crescente: le risorse che riescono ad
assicurare, anche attraverso il sistema di potere alimentato dalla rete
di queste società di servizi, stanno diventando essenziali per
l’esistenza stessa degli apparati partitici. Gli equilibri della
politica nazionale stanno cambiando e non tenerne conto sarebbe una
imperdonabile ingenuità.