In fondo oggi, con la bocciatura della scalata Unipol alla Bnl, è l´epilogo
provvisorio di una grande storia di piccola provincia, la provincia Italia. Il
canovaccio della commedia, o della tragedia, di un paese al guado senza
borghesia, che ha perso quel poco e debole che ne possedeva, per ragioni
anagrafiche, di insipienza o di consunzione. Con un nuovo e deprimente album di
famiglia dominato dal velleitarismo coniugato col grigiore etico, con la
profittevole aleatorità delle regole che normalmente dovrebbero governare le
società moderne. Con una politica sullo sfondo talmente vergognosa di sé, dopo
due lustri di degrado, da lasciare campo libero o, al caso, di tentare di
approfittare dei nuovi arrampicatori.
Perché la grande impresa assicurativa della cooperazione, quotata in Borsa,
non può prendersi una banca, come dopo poco commendevoli mesi di silenzio ha
sentenziato la Banca d´Italia? Perché Marx e Lenin non gradivano la cooperazione
come palliativo dell´economia borghese? Perché non ce la fa a inghiottire un
boccone quattro volte più grande? O piuttosto perché il disegno complessivo di
supplenza trasversale rispetto ai vuoti del vecchio e asfittico capitalismo, con
metodi e soci alquanto riprovevoli, si è rivelato pasticciato, arrogante e
persino truffaldino? Una risposta l´ha già data francamente Massimo D´Alema,
ammettendo l´altra sera che operazioni di tale portata richiedono, oltre a seri
piani industriali, trasparenza e diplomazia. Aggiungeremmo una parola più
semplice: onestà.
Tutto ciò che è mancato, in un intrico di furbizie, patti segreti,
speculazioni, arricchimenti. Nell´arrogante certezza dell´impunità.
Il sogno, costoso, ma redditizio per lui, di un piccolo zar bolognese di
via Stalingrado, vecchio ex comunista che ha scoperto, se non le doti del
mercato, soprattutto le opportunità dell´alta finanza. La megalomania di un
banchierino arrembante fattosi Fanfulla da Lodi, che accede dalla porta
posteriore nei saloni del potere. I foulard di un improbabile finanziere
bresciano da bar con biliardo che, pieno di debiti, si presenta in Bentley a
Torino per candidarsi a comprare non un´aziendola di componenti per auto, ma la
Fiat tutta intera. Un grand commis di Stato di Alvito, centro del suo mondo
provinciale, finito per equilibri di appartenenza a capo della più prestigiosa
istituzione che questo paese conservava, perso, nel grande potere, tra sindromi
religiose e sentimentalismi familistici. E intorno una galassia di utili
prestanome, di odontotecnici, di trafficanti di immobili, di capitali oscuri,
riciclatori di false garazie cartacee per banche compiacenti, anzi
complici.
Gianni Consorte, satrapo dell´Unipol e del glorioso movimento cooperativo
travolto dalle tentazioni dell´ignoto mondo del mercato. Gianpiero Fiorani, il
ragioniere bellimbusto di Codogno che baciava in fronte la più alta autorità
economica del paese ricevendone informazioni riservate. Emilio Gnutti, il
rallista di provincia già condannato per insider trading che dopo l´avventura
Telecom era convinto che chiunque, persino lui, potesse ormai comprare l´Italia
a debito.
E l´uomo di Alvito, illuminato da San Tommaso, che oggi il suo
avvocato – evidentemente in mancanza di altre chances – descrive come uno dei
fratelli De Rege («Vieni avanti tu…), perché non sapeva, non capiva, perché è
stata carpita la sua buona fede di cattolico praticante.
Cosa hanno in comune questi personaggi? Cosa ha potuto metterli insieme in
una scalata al cielo del capitalismo italiano che, come dimostrano i fatti,
aveva tre obiettivi in uno, l´Antonveneta, la Bnl e la Rizzoli-Corriere della
Sera?
Proprio Consorte è forse la chiave di tutto. Vedere insieme il banchiere di
Lodi Fiorani col rallista di Brescia Gnutti e coi furbetti in odore di
riciclaggio come Coppola e Ricucci, con appendici come Sergio Billè, non
stupisce neanche un po´. Le protezioni a destra, Berlusconi in persona, socio
nella finanziaria di Gnutti, e i suoi luogotenenti, la Lega Nord, comprata per
un pezzo di pane, Calderoli e i bancarottieri della Credieuronord, buone fette
di Alleanza Nazionale: frequentazioni e solidarietà antropologicamente naturali.
E´ Consorte, vissuto a destra ancora come la «cinghia di trasmissione» di
memoria togliattiana che fa la differenza. E´ lui il personaggio chiave. E´
l´Unipol che legittima il tentativo di assurgere trasversalmente al cielo del
capitalismo, anche in odio a quei «poteri forti» e autoreferenziali che hanno
sempre tenuto fuori chi non avesse sufficienti quarti di nobiltà.
Cuccia, che faceva il buttafuori, non c´è più. E il primo tentativo di
rinnovamento del capitalismo italiano lo tentò D´Alema da presidente del
Consiglio, dopo un famoso incontro con l´omino di Mediobanca nel salotto del
finanziere Alfio Marchini, quando assistette almeno con simpatia alla scalata
della Telecom da parte dei nuovi capitalisti di campagna, che oggi nega di aver
definito «Capitani coraggiosi».
Scopo commendevole quello di D´Alema in un paese ormai privo di borghesia
produttiva, con un trapasso generazionale devastante, con un capitalismo senza
idee e senza capitali. Consorte era pronto. Capo assoluto della sua società,
anche per una costruzione societaria gotica, controllore di se stesso, spazzata
via la «matrice ideologica», le barriere politiche, era lì in pista per dare
l´assalto al cielo, vezzeggiato come garanzia da personaggi con altre
contiguità, sotto il cappello di un governatore della Banca d´Italia che da
riserva della democrazia scivolava, dopo gli scontri con Tremonti, verso un
declino inesorabile.
Con il viatico del nuovo capitalismo nascente dal basso, con la politica
più debole, con la trasversalità assurta quasi a valore positivo, l´uomo di via
Stalingrado non ha avuto remore nelle ambizioni e nella rete di alleanze.
La Bnl, la «magnifica preda» fondata nel 1913 da Francesco Saverio Nitti
come banca delle cooperative, la considerava già sua. «Come delle belve», diceva
in una delle telefonate intercettate, in Bnl «dovremo lavorare come delle
belve».
Ne è stato divorato e, con lui, le velleità del presunto nuovo capitalismo
senza regole e senza etica.