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5 Settembre 2004

Arturo Parisi, Presidente dell’Assemblea Federale DL-Margherita apre “I Giorni d’Europa” – Polignano 5 settembre 2004

Grazie innnanzitutto per l’accoglienza. Grazie per l’ospitalità. Grazie a chi ha pensato di fare questa festa a Polignano e a Monopoli perché mi ha dato l’occasione di vedere dei posti bellissimi che non avevo ancora visto.
Si dice che la prima scelta che bisogna azzeccare nella vita è quella dei genitori.
Voi avete azzeccato la scelta dei vostri genitori e del luogo dove siete nati.
Mi congratulo con voi e vi do appuntamento per altre visite.


E adesso qualche riflessione un po’ meno “leggera”, inevitabilmente, che recuperi il senso di questi giorni per legare gli eventi ricchi che affollano il calendario: ne ho contati 61, o 56 esclusi gli eventi spettacolari.


Innanzitutto credo che convenga un momento rifrettere sul senso di questa inizitiva, che è ricondotta e che in genere è associata alla categoria delle feste di partito.
Questa festa è “I giorni della Margherita”, una denominazione con la quale abbiamo cercato di difenderci ma che così vien letta, inevitabilmente, in un contesto come quello di questa stagione in cui altri partiti si danno appuntamento per iniziare l’anno con un dibattito, aprendo una riflessione sugli stessi temi che noi oggi affrontiamo.


C’e stato un tempo nel quale masse di esclusi, masse tenute ai margini della società borghese, masse rifiutate dalla società politica, masse di operai, di contadini, di cafoni, cioè di uomini che non avevano altro che “co’ a fune” per tenere su i pantaloni, (come appunto è l’etimo della parola cafone),  avevano immaginato di poter reagire a questa esclusione, a questa emarginazione costruendosi nel presente una contro-società, un mondo a parte in attesa di costruire la società dell’avvenire.


Queste sono le parole con le quali ci siamo fatti compagnia nel secolo scorso e anche nei secoli precedenti.
E’ dentro questa società che le masse, che non sono altro che un insieme di individui, assieme si trasformano in popolo, con le proprie contro-istituzioni.
Le società di mutuo soccorso, di cui troviamo traccia nelle lapidi dei nostri paesi.
Le cooperative.
Il sindacato.
I giornali (non possiamo dimenticare che le feste sono intitolate ai giornali, ai propri giornali, che i singoli partiti si danno come mezzo di comunicazione interna).
I partiti.


Ed è dentro questa contro-società che nasce la festa di partito, in connessione con la conclusione dell’anno agrario.
Non vorrei passare sotto silenzio il fatto che l’appuntamento ce lo diamo in settembre, mentre i borghesi, appunto già concludevano – adesso è un’esperienza di massa, veniamo tutti con le nostre belle abbronzature dalle vacanze – le loro prime esperienze di un turismo e di una vacanza di massa e allo stesso tempo si celebravano nei paesi le feste patronali.
Lo sfondo su cui si svolgono è il tempo delle feste di partito.
Nascono tra le tante istituzioni questi spazi che queste masse che diventano popolo si danno, per riflettere sull’anno che inizia.


Nonostante che nella Margherita siano confluiti partiti, movimenti, tradizioni politiche che non hanno ceduto alla tentazione di costituirsi in una contro-società o hanno ceduto meno di altre a questa tentazione – la Margherita nel celebrare a Monopoli e Polignano per la terza volta , vuole rappresentare anche la sua specificità.
E’ un altro modo di declinare anche la sua identità di partito.
Senza negare la natura di partito di questa festa, vuole segnalare che è la festa diversa di un partito diverso.

E’ da qui che deriva la nostra scelta di svolgere la nostra festa nel cuore delle comunità.
Noi non abbiamo costituito un mondo a parte, come la tradizione delle feste di partito induce.
Ma abbiamo costruito la nostra cittadella estiva e ci siamo dati appuntamento dentro il cuore delle comunità.
Per dire che noi non siamo un altro popolo.
Noi siamo un solo popolo.


Ed è per questo che siamo venuti in terra di Puglia, a Polignano e a Monopoli, dove la Margherita è conosciuta e riconosciuta – per una sua presenza che qui è già immediatamente testimoniata dal fatto che le amministrazioni locali che ci ospitano sono guidate da esponenti della Margherita.
E’ per questo motivo che siam venuti.
Per dire che il tempo del popolo a parte, del popolo diverso, è finito.


E’ finito non per il fallimento delle esperienze precedenti, come mi capita e sento il dovere di ripetere.
Ma per il loro compimento.


I partiti che di questa esperienza, di questa reazione all’esclusione si son fatti guida, hanno concluso il passaggio fondamentale della propria missione e hanno iniziato una nuova stagione.
E pure in questa nuova stagione è bene che le feste continuino, per ricordare quel tempo finito.
Ma, per noi, anche per ricordare che quel tempo è finito.


Certo noi siamo venuti nel Sud per parlare di Sud.
Per denunciare – abbiamo visto già nell’intervento del Sindaco di Monopoli – la politica disastrosa del Sud, sul Sud, di questo governo.
La politica economica che sta riaprendo un dualismo.
Quella divaricazione nello sviluppo che ha segnato il dramma e anzi definisce per eccellenza la questione meridionale.
La politica fiscale degli incentivi, che danneggia proprio quelle categorie che nel Sud sono più presenti che altrove, come anche le aziende che nel Sud operano rispetto alle altre .
L’attuazione di un federalismo non solidarista, con l’avvio di un conto alla rovescia che individua nel 2013 un appuntamento che senza un intervento adeguato può proporsi per il Sud come un appuntamento catastrofico.


E a denunciare anche che dietro le prese di distanza a parole – che i governatori (naturalmente penso innanzitutto alla Puglia) prendono dalle posizioni del governo centrale, dal mitico dentista di Bergamo (lo dico con rispetto per i dentisti e per i bergamaschi) che oggi si trova a rappresentare il governo su questo tavolo – sta una sostanziale complicità con questa politica.


Certo noi siamo venuti a denunciare tutto questo nel Sud.
Ma noi non riteniamo che nel Sud e il Sud sia destinato a parlare solo di Sud.


Saraceno e Vanoni ci hanno insegnato che non c’è bisogno di essere meridionali per essere meridionalisti.
E lo dico da meridionale , e lo dico anche ricordando una felice iniziativa della Margherita, che appunto è andata ai confini del paese, a Varese, per ricordare come il meridionalismo sia stata una bandiera sotto la quele si sono incontrati gli italiani, indipendentemente dalla loro collocazione.


Noi sappiamo che non c’è bisogno di essere settentrionali, per sentirsi cittadini del mondo e dell’Europa.
Ce l’hanno insegnato Sturzo, Salvemini, Spinelli, La Malfa, Moro. Di Vittorio, anche, nel pieno dell’azione, della lotta sindacale.
Ce l’hanno insegnato anche uomini che sulla scia della scelta di De Gasperi hanno guidato la prima costruzione dell’Europa.


E penso inevitabilmente a due grandi isolani. Segni e Martino.
Che proprio nelle isole del Sud hanno dato seguito all’impegno e alla scelta per l’Europa che aveva caratterizzato la prima fase di costruzione post-bellica.
Ce l’hanno insegnato tutti i padri dell’europeismo.


Siamo venuti appunto, sì, a denunciare i limiti della politica disastrosa del governo di centro destra nei riguardi del Sud.
Ma soprattutto a parlare del mondo.
Da questo punto di vista il sottotitolo che oggi vedrà a confronto fra qualche minuto in una piazza vicina D’Alema e Pezzotta, entra direttamente nel pieno, nel cuore del nodo centrale intorno al quale noi ci siamo dati appuntamento.


Parlare del mondo in Puglia naturalmente non è una novità.
Ce lo dice la storia.
Che la Puglia sia il confine d’Europa ce lo dicono i Greci. Quando sono arrivati qui immaginandola la loro America. Concretamente, il loro Nuovo Mondo.
Ce lo ricordano i Crociati. Che in terra di Puglia prendevano commiato dall’Europa, ribadendo la natura di confine europeo della Puglia.


La fase centralistica della costituzione della Stato nazionale – costringendo a pensare il mondo passando da Roma, pensandolo da Roma – ha tuttavia per un momento messo tra parentesi questa consapevolezza.


Ebbene, noi siamo venuti qui a dire che questa parentesi si è conclusa.
E non per sostituire Bruxelles a Roma, passando e pensando il mondo da Bruxelles.
Ma costringendoci a prendere coscienza che un vento soffia forte attraverso il mondo.
E questo è il vento dell’Est.


Ieri sera mi sono soffermato a discutere sui venti dominanti a Polignano…Non sono ancora arrivato ad una conclusione, perché abbiamo un’incertezza se sia il vento di Nord o di Nord Ovest , oppure sia semplicemente un Grecale che vien fatto passare per Maestrale, che sarebbe proprio il massimo.


Ma questo è per quello che riguarda i venti della natura.


Il vento, viceversa , che soffia sulla Puglia e sull’Italia, incontrando per la prima volta lungo il suo cammino appunto la Puglia, è il vento dell’Est.
E’ un vento che ci porta, ci ha portato, le lacrime dei bambini Osseti.
Anzi, ahimè, soprattutto le lacrime delle loro madri.


E’ il vento che ci porta i sogni degli immigrati.
E tuttavia è un vento col quale noi dobbiamo confrontarci, allargando il nostro orizzonte.


Oggi i giornali , approfondendo e riflettendo sul dramma di ieri, son tornati all’11 settembre, individuando nell’11 settembre una faglia che divide due tempi della storia.


Certo non siamo venuti qui a ridimensionare il ruolo dell’11 settembre.
Però sentiamo il dovere di far sentire la nostra voce, il nostro allarme, perché non diventiamo prigionieri di visioni parziali.


Facendo diventare realtà quella che per ora è una sola profezia.
Quella che vuole il mondo destinato ad essere segnato da quello che è stato definito lo scontro di civiltà.


Ebbene non vorrei che il nostro modo di leggere le cose contribuisca alla realizzazione di questa profezia.
Che sarebbe per noi, direi innanzitutto per la Puglia , consentitemi, disastrosa.


Parziale, certo, dire che l’11 settembre è un affare degli americani.
E prendere le distanze come se fosse cosa loro.


Ma parziale è anche chi pensa che all’antico bipolarismo, quello che si è concluso con la caduta del Muro nell’89 tra USA e URSS, si sia sostituito un bipolarismo tra Islam e Cristianità.
O tra Islam e Occidente.


Sarei tentato di definirli dei “ragionamenti a Pera” – come siamo stati indotti a definirli nei giorni scorsi, di fronte a volti che dovrebbero essere ragionevoli e maggiormente riflessivi, che hanno così descritto questo passaggio della storia, invitandoci a prendere posizione.
Invitandoci da una parte che noi riteniamo la parte sbagliata.


Eppure noi sappiamo che, accanto a questo dramma, dobbiamo cominciare a guardarci intorno per scoprire gli altri venti.
Tutta intera la rosa dei venti.


Altri drammi hanno continuato a svolgersi, che sono stati da noi dimenticati solo per distrazione. Non è solo la geografia nostra che si è impadronita di altri nomi.
Adesso noi parliamo della Ossezia, della Cecenia, come se fossero parole che ci avessero insegnato a scuola.
Così come del Kosovo o di tutte le repubbliche della ex Federazione Jugoslava.
Tutte parole che sono entrate nel nostro lessico.


Noi sappiamo purtroppo però che altri nomi attendono di essere conosciuti da noi.
Cento son le guerre che si sono, stavo per dire si sono “divertiti”, a contare.
Ma non c’è verbo più sbagliato per definire questa scoperta, questa presa di coscienza.
Cento, che descrivono il dramma del mondo.


Ed è di queste che noi dobbiam prendere consapevolezza.
Per scoprire quella che è la collocazione nel nostro momento e nella storia.


Cento guerre dimenticate, nelle quali – è terribile fare questi confronti –abbiamo assistito nella totale ignoranza e inconsapevolezza, al macello di milioni di persone. Come se l’Africa, appunto, non ci appartenesse.


Oggi noi piangiamo per ognuno di questi bambini.
Ma non possiamo non ricordare che abbiamo dimenticato tutte le madri e tutti i bambini che sono stati macellati, macellati letteralmente, a centinaia di migliaia in Africa.
Così come i drammi dei quali pian piano prendiamo coscienza e consapevolezza, in questo nostro nuovo apprendimento della geografia.
Penso all’ultimo del Darfur.
Luoghi sconosciuti.
Ed è su questi crinali che noi siamo chiamati a collocarci.


Ed è per questo motivo che noi rivolgiamo il nostro pensiero riconoscente a quanti ci aiutano a difenderci dalla nostra ignoranza.
E’ evidente che il pensiero va immediatamente ad Enzo Baldoni.
Ai giornalisti che, guidati dalla loro passione o anche solo dalla curiosità di conoscere, ci impediscono di sorprenderci.
E ci impediscono di perdere la sensibilità di fronte ai drammi del mondo.


E’ a questa frontiera che noi ci richiamiamo.
E’ a questa frontiera che noi richiamiamo la Puglia.
E dalla Puglia  guardiamo al mondo.


Ed è con questo mondo che noi intendiamo confrontarci.
E’ in questo mondo che noi intendiamo stare.
E’ in questo mondo che noi intendiamo entrare.
Insieme.


Questa è la nostra convinzione di fondo.


Don Milani ci ha detto una volta e per sempre che “uscire dai problemi da soli è egoismo, uscirne insieme è la politica”.


Lo possiamo ripetere nei riguardi del mondo, cambiando il verbo da uscire ad entrare.


Entrarci da soli è egoismo, entrarci insieme è la politica.


Ed è questo il valore fondamentale dal quale noi deduciamo gli altri.


I valori debbono essere, continuano ad essere, il nostro punto di riferimento, assieme alla consapevolezza della realtà.


La scelta per la solidarietà contro la competitività.
Sapendo, però, che il mondo è dominato dalla competizione.


Per il dialogo tra culture.
Sapendo, però, che il mondo è tentato dalla prevaricazione.


La nostra scelta per la pace.
Sapendo però che il mondo è segnato dalla guerra.
Dalle guerre.
Non solo dalla guerra sulla quale volta a volta si indirizza la nostra attenzione.


Non è vero che i due Poli siano uguali.
Questa è la prima menzogna con la quale noi dobbiamo confrontarci.
Non lo dico sul piano culturale o sul piano morale, immaginando che noi siamo quelli sul crinale del bene contro quelli sul crinale del male.


Nel dire che non siamo uguali, noi vogliamo dire che i due Poli, le due proposte che sono a confronto, son guidati da due punti di vista profondamente diversi, sui quali noi abbiamo il dovere di applicarci.
Noi sappiamo che il mondo è attraversato da vent’anni, ventiquattro per l’esattezza, da un confronto tra due tesi, che di fronte alla globalizzazione del mondo sono tra loro in competizione.


L’anno cui faccio riferimento porta il nome di un Presidente americano. Reagan.
Reagan.
E’ iniziato sostanzialmente tutto da lì. Dalla riscoperta da parte degli Americani del mondo in quel momento oltre il Pacifico, del Giappone.


Ebbene, di fronte a questo dramma della globalizzazione, sono entrate in campo due scelte che possono essere declinate con le parole della nostra gente.


Da una parte quelli dell’ “ognuno per sé e Dio per tutti”.
Quello che, per dirlo in difficile, viene chiamato “conservatorismo compassionevole”. Che viene chiamato così da Bush.


E quelli invece di “tutti insieme, con l’aiuto di Dio”.


Noi siamo quelli di questa seconda scelta: tutti insieme, con l’aiuto di Dio.


La prima ha già prodotto dei danni gravissimi – è questo il punto – nella società americana, che ha ridefinito radicalmente la propria composizione sociale, distruggendo quello che è il patrimonio fondamentale di una democrazia.
Quello che viene chiamato “il ceto medio” è stato letteralmente distrutto, in America.


Su questa strada il centro destra italiano ci ha ormai indirizzato, su questa strada si è incamminato.
Di questo dramma incipiente, prima prendiamo coscienza e meglio è.
Quella che viene definita – nella disciplina da cui provengo – una forma “a diamante”, con la parte centrale più larga, pochi ricchi e pochi poveri, sta diventando sempre di più in America quella che viene definita una formazione “ a clessidra”, dove la parte centrale si restringe sempre più mentre si allargano drammaticamente le altre due.


Questo è il rischio che noi corriamo in Italia.
Dentro questo rischio è inscritto il dramma del nostro futuro.


Questo dramma ha avuto già un nome, in passato, e si chiama “proletarizzazione dei ceti medi”.
Mi dispiace introdurre in un contesto di festa una categoria di questo genere.
Una proletarizzazione che colpisce soprattutto i nostri giovani.
Che colpisce soprattutto e innanzitutto quelli che sono portatori di titoli di studio superiori.
Va nascendo nelle nostre città un nuovo proletariato, in genere definito con parole inglesi per alleviare il dramma. Ma non tali da poter nascondere il dramma.


Noi e i nostri figli ancora non ce ne siamo accorti.
Ce ne accorgeremo – cominciando dalla condizione del welfare – tra dieci anni.
Perché sappiamo già quando si comincerà a vedere il dramma.


Noi sappiamo che di fronte a questa scelta – qui penso a Franco Marini che si è confrontato con questa scelta negli anni ’70, con queste tesi che già anticipavano descrivendola come avvenuta qualcosa che ancora non era avvenuta – appunto, di fronte a questi fenomeni che iniziano, abbiamo di nuovo le due scelte.


La scelta di chi investe sulla contraddizione, perché è guidato dall’idea che si possa raggiungere il bene attraverso il male.
E’ l’antica illusione comunista.
Che l’esplosione della contraddizione produca comunque una società migliore, pur a prezzo di sofferenze nel presente.


Noi non siamo guidati, non disponiamo né di una fede né di una teoria e meno che mai di una teoria scientifica, come sosteneva chi immagina che il bene si possa costruire attraverso il male.


Ed è perciò che la Margherita è chiamata a collocarsi al centro di questa contraddizione.


Facendosi carico della soluzione dei problemi, di questo processo drammatico che si sta avanzando in Italia, come la desertificazione avanza nel deserto, coprendo terre che erano fertili e che invece son destinate e non portare neppure più traccia dell’antico splendore.


Questo lo dico per dire che c’è poco da ridere. C’è molto da lavorare.


Ed è su questa pista che noi riteniamo che il centrosinistra debba tutto insieme incamminarsi.
Ed è su questa via che noi immaginiamo che, rimboccandoci le maniche, dobbiamo applicarci alla ricerca di soluzioni concrete.
All’interno di un problema che ha una sua generalità ma che è fatto di tanti dettagli.
Dettagli che sono contati, nell’insieme della Festa, all’interno delle singole sezioni.


Ed è appunto anche su questa ipotesi di lettura che vi invito a seguire i dibattiti che appartengono apparentemente a tematiche diverse, ma che tuttavia possono essere accomunate da un filo comune.


Perché noi sappiamo anche che il problema che ci si pone di fronte non è un problema di breve durata.
Non è un problema che può essere risolto nel tempo di una legislatura.
Non è un problema che può essere affidato a un programma di governo.
Ma neanche – e meno che mai – a un programma che venga immaginato come la “media ponderata” tra i programmi di diversi partiti.


E’ un programma e una tensione che deve essere cercata in un progetto di lunga durata.
Ed è alla costruzione di questo progetto che noi ci sentiamo impegnati.
Ed è per questa costruzione che noi riproponiamo l’importanza del partito, dei partiti.


Perché senza i partiti il presente sarebbe destinato ad essere pensato separatamente dal passato e dal futuro.


E’ il partito che aiuta anche chi è caricato del presente – e mi rivolgo inevitabilmente a chi guida le amministrazioni locali – che per quanto allargato al tempo di una legislatura è pur sempre il tempo del presente.
Senza l’aiuto di un luogo di riflessione più ampia, che colloca il presente in una riflessione di lumga durata, rischia di lasciarli soli.


E’ anche a questo che serve il momento di riflessione come questo.


E’ anche per questo che il nostro partito si da appuntamento ogni anno nel cuore della comunità, nel cuore dell’Italia.


Per riprendere il cammino che leghi il presente al futuro
L’io al noi.


Grazie.