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27 Marzo 2007

Andreatta, il padre dell’Ulivo

Autore: Aldo Cazzullo
Fonte: Corriere della Sera

Roma – — Beniamino Andreatta è uscito dalla vita pubblica il
15 dicembre 1999, quando si accasciò alla Camera senza mai riprendere
conoscenza. Ma nei sette anni del suo lungo sonno nessuno ha mai parlato di
lui al passato. Andreatta è rimasto sino a ieri quello che è sempre stato.
L’inventore dell’Ulivo. Il punto di riferimento di personaggi come Romano
Prodi, Giovanni Bazoli, Arturo Parisi.

Il maestro dei giovani più
promettenti di una generazione, a cominciare da Enrico Letta. Il demiurgo di
una comunità, che ha continuato a scrivergli lettere, a fargli visita, a
parlargli nel letto d’ospedale, a rivolgersi a lui come all’uomo di sempre,
che Giuliano Amato definiva «la persona più intelligente che abbia mai
incontrato».
Soprattutto, in questi 75 mesi Andreatta è stato ancora marito e
padre. La famiglia ne ha coltivato l’attesa e difeso il silenzio con una
discrezione assoluta. La moglie Giana soffrì, quando i giornali collegarono
alla vicenda del marito il suo intervento al convegno degli «Amici di Luca»,
l’associazione bolognese che ha inventato la Casa dei Risvegli. Le sue
parole erano destinate a poche persone, che mai avrebbero parlato con lei di
eutanasia o di spine da staccare; né mai lei avrebbe fatto discendere
un’indicazione politica da una semplice scelta d’amore. «La malattia — disse
Giana Andreatta — è parte della vita. Va vissuta insieme, fianco a fianco,
come i momenti belli».

I momenti belli erano stati molti. La nascita di
quattro figli: Tomaso che lavora in banca, Filippo che insegna Relazioni
internazionali a Bologna e dirige la scuola del partito democratico,
Eleonora che si occupa di fiction Rai, Erika che lavora alla Ducati.
L’esperienza a Trento (sua terra d’origine), dove Andreatta con Bobbio e
Alberoni tiene a battesimo la prima facoltà di sociologia in Italia,
sostenendo aspri confronti con gli studenti di cui non condivide
l’estremismo; per poi fondare un’altra università, quella della Calabria.
Uomo della sinistra Dc, Andreatta è stato rigorista in economia e
anticomunista in politica (nell’85 si candidò a sindaco di Bologna contro
Imbeni). Più volte ministro del Bilancio e del Tesoro nella prima
Repubblica, fu l’artefice dell’indipendenza della Banca d’Italia dal governo
e tenne testa al Vaticano sul caso Ior. D’intesa con Carlo Azeglio Ciampi,
affidò l’Ambrosiano a un avvocato bresciano con cui aveva diviso un
appartamento a Milano quand’erano studenti alla Cattolica, Giovanni Bazoli.
Con Ciampi fu ministro degli Esteri. Guidò l’ala del partito popolare che
non si riconobbe nella scelta berlusconiana del segretario Buttiglione,
coniò la formula dell’Ulivo e ne indicò il leader naturale — quando altri
invocavano Dini, De Rita, D’Antoni — in Romano Prodi. Di Prodi fu ministro
della Difesa. «Non riesco a dargli del tu» diceva il presidente del
Consiglio del suo maestro.

Poi, d’un tratto, Andreatta perse ciò che
in Italia e non solo connota la politica, sin quasi a esaurirla: la parola.
Ma la sua presenza nella politica italiana non venne meno. Anche costretto
al silenzio, restò il punto fisso attorno a cui ruotavano un mondo, un
progetto, un gruppo. Per oltre sette anni, Andreatta è rimasto presidente
dell’Arel, la sua fondazione, professore emerito di Economia all’università
di Bologna, consigliere di Prometeia, altra sua creatura. Ha pubblicato,
ovviamente dal Mulino (industria di cultura che aveva schierato con il
centrosinistra a prezzo di qualche rottura personale), il saggio «Per
un’Italia moderna. Questioni di politica e di economia», ricevendo dai
colleghi biglietti di ringraziamento. A un convegno con Ciampi, Fini e
Casini si discute del suo progetto di riforma dell’Onu, fatto proprio pure
dal governo Berlusconi. Si tengono le primarie dell’Ulivo, realizzando una
sua idea. Salvati gli dedica il saggio sul partito democratico. L’Arel
pubblica il suo ultimo discorso in Parlamento, sul mondo globale.

«L’ho
incontrato a Milano, alla Cattolica, e non me ne sono più separato — ha
raccontato Prodi —. Potrei parlare di Andreatta per una settimana intera.
Gli devo quasi tutto. Ci siamo sempre dati del lei, ma siamo sempre stati
amici. E’ stato mio testimone di nozze. Anche mia moglie Flavia è stata sua
allieva, si è laureata con lui. Fu Moro ad avvicinarlo alla politica, ma
Andreatta non si poteva inquadrare in una corrente; per questo i capi Dc ne
diffidavano. Quando cominciò l’avventura dell’Ulivo, lui ebbe un ruolo
fondamentale: nel convincere gli altri che l’uomo giusto ero io; e nel
convincere me. Si fidava della sinistra, sempre però con un forte senso
della propria identità. Una sola volta gli ho detto no: quando tentò di
convincermi a rifiutare la presidenza della Commissione europea, per
perseguire il nostro disegno comune in Italia. Gli risposi che sottrarsi
all’Europa sarebbe stata una ferita proprio per l’Italia».

Da casa Prodi
a casa Andreatta ci sono centocinquanta metri. In mezzo, il dipartimento di
Economia, che cade nel territorio della parrocchia di san Bartolomeo, dove i
professori ascoltavano le omelie di monsignor Gherardi, il parroco di Monte
Sole, sopra Marzabotto. Ognuno degli allievi (tra gli altri, Angelo
Tantazzi, Alberto Quadrio, Mario Baldassarri, l’unico approdato a destra) e
degli amici si è fatto carico di un pezzo della sua eredità. Franco Merloni
e Roberto Pinza dell’Arel, con Amato e Letta. Paolo Onofri di Prometeia, la
società di ricerche dove il progetto modernizzatore di Andreatta incontrò le
grandi aziende italiane. Mario Tesini ha scritto su una trouvaille nella
biblioteca di Andreatta: le annate di Cronache sociali, la rivista della
corrente dossettiana della Dc, e i due saggi del 1950 in cui La Pira alterna
citazioni di Keynes e delle scritture. Carlo D’Adda, presidente della
società italiana degli economisti, ha curato — sempre per il Mulino — una
raccolta di saggi su Andreatta, raccontando come negli Anni Ottanta abbia
studiato e applicato alcuni principi del monetarismo; perché non ci sono
categorie in cui chiudere il suo pensiero. Con una costante imprescindibile,
come ha mostrato anche la scelta della famiglia, il
cattolicesimo.

«Dire che Andreatta viveva la fede come un atto
privato sarebbe limitativo — ha ricordato Giovanni Bazoli —. E’ vero che
aveva un fortissimo pudore e riserbo sulle cose intime e personali. Ma è
altrettanto vero che i valori del cattolicesimo informavano le sue scelte e
i suoi comportamenti privati e pubblici. Aveva il coraggio
dell’indipendenza, e lo dimostrò più volte, non solo quando denunciò in
Parlamento le responsabilità dello Ior nel crac dell’Ambrosiano. Sapeva
ascoltare. Era sempre disponibile e interessato ad ascoltare le opinioni
degli altri, anche delle persone più modeste. All’Italia mancano il suo
disinteresse assoluto e il suo spessore morale». In ospedale, Andreatta ha
potuto ascoltare (forse anche, in taluni momenti, comprendere; i medici non
lo escludevano) la voce delle persone care. («Vorrei essere amato dai miei
familiari come lo è lui» ha detto Prodi). Resta il ricordo della prima parte
della sua vita, e la lezione dei sette anni in cui la famiglia ne ha
vegliato il sonno; con un dolore paziente, e la consapevolezza che, per
quanto la speranza del risveglio si faccia attendere sino a sfumare, il
tempo dell’attesa non è tempo perduto.