Stiamo davvero per essere schiacciati dalla nostra stessa paura del declino. E’ questa inquietudine per il futuro che ci fa diffidare della vita comune, dell’avvenire dei nostri diritti, della fortuna delle nostre iniziative Giuliano Amato attribuisce ai cambiamenti globali dell’economia una dimensione epocale. Per questo vede la necessità di un ruolo della politica nella lettura del futuro, una lettura che altrimenti continuerebbe a restare oscura e che nessuno sarebbe in grado di chiarire individualmente.
Come Karl Kraus, direbbe che l’opportunità globale è una soluzione che si sta trasformando in enigma. E questo perché coglie in particolare la speciale debolezza dell’Italia. E cerca di gettare una luce netta sullo scenario del declino: «Abbiamo bisogno che la politica e l’economia disegnino una “mappa”» di queste terre tanto incerte, «per assicurare il futuro produttivo del nostro paese». È un richiamo al “futuro possibile” che incrocia il «far squadra» degli imprenditori, ma che poco si concilia con la difesa dell’italianità del sistema creditizio, cara al governatore Fazio, in giorni e ore cruciali per il ridisegno del sistema delle banche.
Davvero Lei coglie soprattutto paura in una fase di crescita economica globale esuberante? Ed è questa stessa inquietudine che deprime gli italiani?
«Questo è uno di quei momenti della Storia in cui il futuro appare diverso dalle esperienze sulle quali siamo cresciuti e sulle quali abbiamo costruito le nostre certezze. La storia cambia sempre, ma è innegabile che ci siano momenti di grande crisi nei quali si creano grandi discontinuità: quando venne scoperta l’America, i traffici marittimi che prima poggiavano sui nostri porti meridionali si spostarono verso Nord, Palermo perse la sua importanza declinò e venne il tempo di Liverpool. Ancora più significativo il cambiamento che avemmo con la industrializzazione dell’Ottocento: milioni di uomini che lavoravano nelle campagne e nelle botteghe si trovarono private della loro vecchia vita e dovettero cominciarne una nuova nei grandi capannoni industriali. La mia sensazione è che questo sia un momento analogo: siamo stati la parte centrale delle economie sviluppate in questi decenni, ora ci troviamo a fronteggiare un’economia internazionale nella quale stanno crescendo giganti che progressivamente producono quello che noi stiamo producendo e ci portano alla domanda: ma quale futuro avremo».
E questa stessa domanda ci frena anziché stimolarci
«È una domanda che accomuna tutti, il lavoratore flessibile e l’imprenditore. Perché molti lavoratori sono diventati precari in conseguenza della concorrenza globale che ha portato le imprese a moduli diversi di organizzazione e ora si confrontano con orizzonti brevi. E molti imprenditori hanno orizzonti analoghi, si chiedono per quanti anni potrò resistere alla concorrenza Questo è il cuore della grande incertezza».
Gran parte del mondo vive questa fase come una grande opportunità, nel 2004 si è avuto il più forte tasso di sviluppo degli ultimi 30 anni. Anche nei paesi di vecchia centralità, la Germania è diventata il primo esportatore mondiale. Perché viviamo questo come una minaccia?
«Questo è il cuore della questione. Raramente il declino è oggettivo. Molte volte è dovuto al congiungersi di circostanze oggettive e dell’incapacità di leggere il futuro. Uno studio di Goldman Sachs che proiettava i dati sul 2050, vedeva spazzati via Germania, Francia, Italia e lo stesso Regno Unito dalla competizione globale. Il problema del futuro è inaggirabile».
Grazie al boom dei nuovi paesi il Giappone è uscito da 20 anni di stato comatoso, non si esagera con la paura del commercio?
«Non c’è dubbio che questa sia una fase di grandi opportunità. Che però alcuni vedono come una grande minaccia. Per questo, per recuperare chi subisce il peso della minaccia, si parla di fiducia. Il dato italiano è inesorabile, in dieci anni abbiamo perso un terzo della quota di commercio mondiale. Eravamo al 4,5 nel ’93 e siamo scesi al 3 nel 2003. E’ il segno di un destino inesorabile O dipende dal fatto che noi meno di altri sappiamo adattarci alle nuove condizioni».
Guardando i dati sull’uso di tecnologia sembra che l’Europa stia agganciando gli Usa.
«Sono segnali positivi, ma oggi non possiamo accontentarci di dire che il problema è più ricerca e più innovazione. Se fossi un imprenditore chiederei: ma che cosa devo ricercare Non mi aiuta un richiamo tanto astratto. La ricerca deve essere innestata in un tessuto concreto di prospettive industriali rispetto a settori nei quali possiamo avere un futuro. Fu la Commissione Prodi in particolare a porsi il problema di capire “che cosa noi europei sappiamo fare”. Indicò settori precisi: biotecnologie, informazioni, energie alternative, difesa e aerospazio. Venivano indicati anche i settori italiani, ma da noi questo lavoro si è disperso. Prima abbiamo pensato che bastasse la politica della concorrenza e ora, all’estremo opposto, siamo passati alla politica difensiva dei dazi. C’è un grande vuoto in mezzo: mentre una politica di promozione si affiancherebbe a quella della concorrenza».
Non crede sia rischioso affidare alla politica il compito di individuare i settori vincenti dell’economia del futuro?
«La politica non può dare una risposta sua, ma creare una rete e, con l’economia, mettere a fuoco il tema del futuro possibile, cioè definire una mappa sulla quale l’economia italiana e gli italiani potranno camminare nei prossimi anni. Ma no, non lo farà mai da sola. Vedo in questa chiave gli impulsi di Confindustria che finalmente è tornata su questi temi e cerca anch’essa di definire una mappa del futuro».
Secondo i sondaggi gli italiani hanno sfiducia nelle capacità delle istituzioni di funzionare e di far rispettare la legge più che nelle imprese. Perché dunque cercare una soluzione politica alla sfiducia?
«Forse non è del tutto vero: in Italia c’è molta ricchezza finanziaria, ma ben poca di essa va a finanziare le imprese. Il demone dell’investimento finanziario è il grande problema dell’economia capitalistica. Ma in gran parte del mondo ci sono investimenti industriali che riescono ad attrarre investimenti finanziari. Se da noi succede meno è perché meno si vede il futuro dei rendimenti. E qui si torna al punto di partenza».
Quali esempi concreti ha in mente?
«Un esempio Croazia, Croazia, Croazia. Il nostro è un paese di grandi risorse turistiche ma ora gli operatori sono sgomenti nel vedere che i turisti varcano le Alpi per andare in Croazia anziché da noi. C’è un problema di rincaro esagerato dei servizi, ma anche di organizzazione complessiva degli operatori turistici, del territorio e di offerta complessiva per la quale va appunto definita una mappa. È il «fare squadra» di cui si fa promotore Montezemolo, o il «fare sistema» che sanno fare i responsabili pubblici e privati delle parti del nostro paese che funzionano meglio».
Lei ha scritto della necessità di valorizzare sui mercati internazionali un triangolo “italiano”, costituito dalla creatività, dal territorio e dalla produzione di qualità, ha in mente una «mappa» anche più precisa?
«Lungi da me l’idea di una programmazione settoriale pubblica, ma abiti Armani, auto Ferrari e Brunello di Montalcino vanno usati come battistrada di una produzione molto più larga che si distingua per qualità e creatività anche nei settori tradizionali, che si differenzi dalle produzioni di altri in ragione di un marchio Italia. Siamo su questo veramente più bravi di altri e allora ci accorgeremo che i paesi dai quali ci sentiamo aggrediti sono paesi di miliardi di potenziali consumatori. Già nel ’92, con i guai che avevamo nella finanza pubblica, dicevo che non possiamo avere solo un futuro da Disneyland».
Non c’è pericolo che l’accentuazione della connotazione territoriale sia un’operazione di chiusura culturale e non di quell’apertura che tanti sentono necessaria, per esempio nel settore bancario oggetto di interesse straniero?
«Una caratteristica che sta assumendo l’economia internazionale è di rifiutare la standardizzazione dei prodotti: anche Mc Donald ha smesso di fare lo stesso hamburger in ogni parte del mondo. Un Banco di Bilbao che diventasse azionista di riferimento della Bnl non finanzierebbe corride italiane. Farebbe un grave errore se finanziasse toreri italiani, perché noi non abbiamo toreri e gli converrebbe finanziare qualcosa d’altro. Noi italiani siamo l’esempio vivente di un’economia assolutamente nazionale nel tipo di produzione e nell’inventiva dei prodotti e assolutamente internazionale nella collocazione sul mercato. E’ importante che gli italiani non smettano di ricordarselo. Abbiamo bisogno che ci si occupi di questo, tutti».
In quale sede?
«In tutte le sedi, quelle locali, negli incontri tra industriali, nell’elaborazione delle piattaforme sindacali, nel lavoro delle Camere di commercio o degli enti del turismo. Nel lavoro della politica. La politica si occupa del futuro della nostra economia e in questi giorni lo fa negli incontri con gli elettori, che su questo la interrogano. Eppure nel dibattito politico la guerra tra i poli finisce per sovrastare. Non sarà tutta colpa della stampa. Attribuisco al centrosinistra, in primo luogo proprio a Prodi, una sensibilità superiore per questi temi a cui il centrodestra è arrivato solo ora con queste misure sulla competitività sulle quali non entro neanche nel merito».
Ma funzionano le programmazioni di lungo termine In fondo né gli obiettivi decennali di Lisbona, né l’Agenda 2010 di Schroeder hanno avuto successo. Il problema è se in Italia funzionano le leggi e questo ora, non nel 2010.
«Siamo infatti stanchi di parlare di strategie astratte. Il problema è proprio la capacità operativa degli Stati che ha fatto fallire Lisbona. Dobbiamo capire concretamente come indirizzare la ricchezza finanziaria agli investimenti nei settori in cui gli imprenditori attribuiscono un futuro».
La risposta del governo è quella di abbassare le tasse.
«Sì, ma quali Ridurre le imposte personali sul reddito è una risposta muta, perché anche al massimo della sua efficacia non concorre a identificare lo spazio futuro dell’Italia nella divisione internazionale del lavoro. Aiuta tutt’al più a rendere più vendibili i prodotti che qualcuno pone sul mercato, chiunque sia che li offra, grazie a un maggiore potere d’acquisto».
Lei propone di sostituire la minore incertezza nel futuro, attualmente sotto forma di pensioni future, con minore incertezza nel successo delle imprese e quindi trovare risorse riformando le pensioni?
«Noi europei vediamo la sicurezza sociale come un ingrediente di un futuro non vissuto con eccessi di precarietà. Questa è la nostra Europa. Ma affrontiamo un peso di popolazione anziana molto rilevante. Dobbiamo porci il problema di far sì che le risorse del sistema siano allocate in modo equilibrato tra chi deve provvedere alla vecchiaia e chi deve assicurare il futuro per tutti. Non a caso dal documento con cui è stato modificato il Patto di Stabilità si privilegia, come riforma più utile al futuro, quella pensionistica che conti sulla previdenza integrativa. Ma se andiamo a parlare di risorse, affrontiamo quello del budget comunitario: ragazzi! Siamo ancora al 40 di budget agricolo. Con tutti i problemi di futuro dell’Europa!».
Parlando di apertura e di protezione abbiamo un test sotto gli occhi con l’apertura del sistema del credito. E’ necessario preservare la nazionalità del sistema creditizio o siamo già nella fase del salto alla prospettiva del mercato più aperto?
«Sono tra quelli che pensano che il salto debba essere fatto. Tra i vizi che l’Europa continua ad avere c’è quello di un mercato dei servizi finanziari che non è ancora riuscito a essere davvero integrato e quindi non aiuta le risorse finanziarie ad andare dove ha senso che vadano. Attraverso quel progressivo e difficile processo partito dalla “foresta pietrificata”, prima della legge che porta il mio nome, siamo riusciti a dotarci di banche che con un piccolo sforzo in più possono giocare la partita del mercato finanziario europeo alla pari con tutti gli altri. Davanti a questa prospettiva ben venga se in alcune banche non primarie entra del capitale straniero pronto a cimentarsi da noi. Ciò permette alle nostre banche di entrare per questa porta in circuiti più ampi. E le nostre banche più forti potranno fare lo stesso all’estero. Non ha senso che ci siano una moneta unica e una banca centrale euopea, ma sistemi finanziari nazionali».
Ma i difensori dell’italianità del sistema creditizio, come il governatore Fazio, potrebbero dire che quello che cercano di fare è proprio una «mappa» del sistema bancario italiano, come quella che lei propone per il sistema produttivo.
«Sì ma una cosa è una mappa di quartiere e una cosa è una mappa europea. Io credo che noi dobbiamo pensare in termini di mappa europea».