Il Partito Democratico prossimo venturo non rappresenterà,
almeno per come si è venuto costruendo nei congressi dei due soli partiti che
hanno finora aderito a quella prospettiva, la conclusione logica e politicamente
auspicabile dell’’esperienza dell’’Ulivo.
Molto più ampia, molto più
ricca, molto più aperta fu la stagione dell’’Ulivo, che, non dimentichiamolo, si
interruppe bruscamente con il rovesciamento del governo Prodi nell’ottobre del
1998. Molto più intensa era stata la partecipazione di settori
dell’’associazionismo, dei molti Comitati per l’’Italia che vogliamo, di
cittadini “sciolti” richiamati alla politica da una novità effettiva e
potenzialmente entusiasmante, un mix felice di partiti indeboliti e meno
arroganti e di società attiva, di ceti, non soltanto medi, ma sicuramente
“riflessivi”.
Molto più avvincente, anche se, in definitiva, non
riuscito, fu il tentativo di combinare e fondere le culture riformiste (chiedo
scusa, “riformatrici”), purtroppo, spesso non del tutto adeguatamente tali, del
paese. Sarebbe stato molto importante ripartire, come sottolinea Romano Prodi
nella sua lettera a l’’Unità, proprio da quelle origini, ritrovarne lo spirito e
fare leva aggiuntiva e decisiva su quel popolo delle primarie che fu sicuramente
anche “ulivista” (e che vorrebbe tornare ad esserlo, per davvero).
Prendiamo laicamente atto che, per una molteplicità di ragioni, molte
delle quali nient’’affatto buone, non siamo nelle condizioni di riprendere
quella corsa. Il Partito Democratico, come si è finora venuto configurando, non
è né la prosecuzione né l’’erede dell’’Ulivo. E hanno fatto molto bene a
ricordarlo, con minore o maggiore severità e preoccupazione, sia Walter Veltroni
che Arturo Parisi. Intravedo nella lettera di Prodi a l’’Unità anche, da un
lato, una velata critica a quel che è avvenuto, al quale bisognerà porre rimedio
e presto (magari seguendo alcune, però, non tutte, delle indicazioni di Roberto
Gualtieri: «Uomini e donne alla pari»), dall’’altro, un richiamo indirizzato ai
Democratici di Sinistra, come riconoscimento del loro impegno e dell’’intensità
del loro dibattito (un po’’ troppo) interno.
Non mi pronuncio, invece,
su quello che è avvenuto, altro che “una testa un voto” e rilancio dell’’Ulivo!,
dentro la Margherita: non mi pare affatto un buon viatico per un partito che
intenda anche tenere fede alla sua definizione “democratica”.
Probabilmente,
ovvero, almeno questo personalmente spero, Prodi vuole rimettere al centro del
costituendo Partito Democratico il recupero del meglio dell’’esperienza
dell’’Ulivo e delle primarie. Peraltro, anche lui porta qualche responsabilità
nel non avere né voluto né saputo valorizzare nessuna delle due. Dunque, usciamo
dall’ipocrisia e da narrazioni senza fondamento.
Mancano nella
costruzione del Pd le culture ambientaliste e socialiste. Non le si ritrova
affatto neppure nel «Manifesto dei Valori» la cui accettazione senza apposita
discussione nei Congressi e senza possibilità di emendamenti e di drastica
riscrittura, ecco dove differisco radicalmente da Gualtieri, uno degli estensori
di quel Manifesto, non può in nessun modo costituire il biglietto d’ingresso nel
Partito Democratico. Mancano anche tutti quei cittadini senza partito, che
potrebbero sicuramente rappresentare la maggioranza degli aderenti, che non
hanno avuto modo di esprimersi in corso d’opera e che dopo i congressi verranno,
forse, invitati ad una tavola già imbandita e con posti predeterminati.
Non mi è, infatti, neppure chiaro che cosa significa in pratica
l’’espressione troppo spesso (tanto da farmi diventare sospettoso) ripetuta “una
testa un voto” poiché i problemi stanno a monte: quali sono le teste da contare
e come verranno contati i loro voti. Ad esempio, quelle teste votanti dovranno
inevitabilmente contare anche nella decisione se aderire o no (che significa,
allo stato, nell’’attesa di un’’improbabile
conversione “democratica” dei
socialisti europei, rimanere nel limbo) al Partito Socialista Europeo. Vorrei
che contassero anche nella scelta del nuovo sistema elettorale sul quale mi
attendo che si misuri il tasso di riformismo delle culture politiche che si
esplicita nell’’indicazione di quale sia il sistema politico
preferito.
Infine, ma questo è il mio messaggio, lui direbbe “forte”, a
Romano Prodi, è evidente che se deve esserci coincidenza fra il capo del Partito
Democratico e il Primo ministro, allora almeno in questa fase, per non
indebolire il governo, deve essere il
Primo ministro, quello che già si
trova a Palazzo Chigi, a guidare il Partito democratico, fino alle prossime
primarie. Dunque, dica Prodi con maggiore chiarezza, non soltanto, anche se lo
considero un omaggio, ai Democratici di Sinistra, ma anche, subito, alla
Margherita e alle altre culture riformiste, quale partito vuole per sostenere,
incoraggiare, potenziare l’azione del suo governo.
A un capo, di partito
e di governo, spetta di fare la sintesi e di guidare, assumendosene tutta la
responsabilità. Questo è il salto di qualità al quale è assolutamente opportuno
che Prodi prepari se stesso e il Partito Democratico. Qui ed ora.