5 Dicembre 2005
Aborto, la sfida della 194
Autore: Massimo Livi Bacci
Fonte: la Repubblica
Non sorprende che la corsa per la cattura del voto dei cattolici abbia subito un´accelerazione, a pochi mesi dalle elezioni di primavera. Né sorprende che la questione dell´aborto sia entrata nel dibattito politico.
È giusto che sia così, le leggi e la loro applicazione sono migliorabili perché le condizioni sociali cambiano, così come la cultura e le idee dei cittadini.
Dunque, che la legge 194/78 sulla “tutela sociale della maternità e l´interruzione volontaria della gravidanza” venga sottoposta ad esame per individuarne forza e debolezze, è fatto naturale in un regime democratico.
Del resto, dal momento della sua approvazione (sono trascorsi quasi trent´anni) c´è stata per lo meno un´occasione annuale di dibattito parlamentare sulle relazioni del ministro della Sanità e del ministro della Giustizia prescritte dall´art. 16 della legge.
Di fronte alle disordinate dichiarazioni del ministro Storace, è da presumere che la componente responsabile dei partiti della Cdl fiuti acque pericolose.
In molti si affannano a dire che la revisione della 194 non è “nei programmi di governo” o addirittura che la 194 “non si tocca”.
E infatti, sollevando la questione dell´aborto, si rischia di perdere milioni di voti. La legge, nel complesso, ha funzionato bene e la stragrande maggioranza degli elettori la vogliono conservare.
Molti perché ritengono che la decisione in merito all´esito di una gravidanza sia una prerogativa irrinunciabile della donna. Altri perché convinti che l´aborto sia un male, ma che la legge eviti mali di gran lunga peggiori.
Altri ancora per pura convenienza. Così fu nel 1981, quando i due terzi dei votanti bocciò il referendum abrogativo e così è oggi, e a maggior ragione, perché gli italiani – e soprattutto le italiane – sono assai più consapevoli in materia di sessualità e riproduzione.
I cittadini debbono però sapere che la legge si regge su meccanismi complessi e delicati e debbono diffidare di proposte incaute e demagogiche.
Tale è quella che invoca la massiccia la presenza di volontari (Movimento per la Vita) nei consultori.
Questi necessitano, semmai, di maggiore professionalità (che è capacità di comprendere, informare e consigliare): quando e dove questa faccia difetto, il sistema pubblico ha i mezzi per porvi riparo.
Né è pensabile di mettere un volontario (scelto come?) al fianco di ogni medico di famiglia che – al pari dei consultori – è abilitato a porre in atto la procedura che conduce all´interruzione di gravidanza (e lo fa nel 35 % dei casi).
Negli Stati Uniti, dove dal 1973 esiste una normativa per molti versi simile a quella italiana, gli Stati (che non possono abrogare una legge federale) a maggioranza repubblicana e nei quali operano forti correnti integraliste antiaborto, hanno ostacolato il funzionamento della legge con danno dei ceti più deboli e vulnerabili.
Questo potrebbe avvenire anche da noi.
In Italia esistono disuguaglianze territoriali nell´efficienza del sistema sanitario pubblico e nella funzionalità dei consultori – ma queste non appaiono così rilevanti da non potere essere corrette.
La distribuzione dei consultori è abbastanza uniforme sul territorio nazionale (1,6 ogni 10000 donne feconde nel centronord; 1,5 nel Mezzogiorno); lo stesso può dirsi per la frequenza dei medici obbiettori (sei su dieci nel centronord, la metà nel Mezzogiorno); o, infine, per gli interventi oltre la dodicesima settimana di gravidanza, che comportano maggior rischio (2,5 % nel centronord e 1,4% nel Mezzogiorno).
Del buon funzionamento della legge attesta l´andamento del fenomeno. Dopo un aumento degli interventi nei primi anni (fino ad un massimo di 235,000 nel 1982), questi sono gradualmente diminuiti fino ad attestarsi su 130.000-135.000 interventi negli ultimi 5 anni: c´erano 17,2 IVG ogni 1000 donne nel 1982, ridotti a 10 per 1000 nel 2004.
Nell´ambito dei Paesi con analoga legislazione, il ricorso all´aborto è, in Russia, pari a 7 volte l´Italia; negli Stati Uniti e in Svezia circa il doppio; in Gran Bretagna e in Norvegia il 60 per cento in più; in Francia il 30 per cento in più.
Tra i grandi Paesi, solo in Germania il livello è più basso. Nell´ultimo ventennio la diminuzione è stata pressoché uniforme nelle varie regioni; ma ha riguardato più le donne sposate che quelle non sposate e, in generale, è stata meno forte tra le donne adolescenti o molto giovani che tra quelle meno giovani.
Questi ed altri dati suggeriscono, in primo luogo, che il timore che l´aborto “reso facile” spingesse altre donne – non più distolte dalla paura di commettere un reato – ad interrompere la gravidanza, non aveva ragione di essere.
Analogamente, è infondato il timore che l´adozione del RU 486 crei una richiesta “aggiuntiva” di aborto: una varietà di metodiche accresce semmai l´efficacia complessiva degli interventi.
È vero invece che la legge ha fatto “emergere” nella legalità e nella sicurezza dei presidi medici, un fenomeno clandestino doloroso, pericoloso e criminogeno.
A maggior ragione, inoltre, l´aborto legale, non può essere reso responsabile della bassa natalità, che è la conseguenza di scelte volontarie e coscienti delle coppie.
Che l´abortivotà delle adolescenti sia rimasta pressoché costante, così come quella delle donne non sposate; che questa appaia assai più elevata della media tra le donne con bassa istruzione; che sia più che tripla tra le donne immigrate rispetto alle italiane; che esista ancora un non trascurabile numero di aborti clandestini, prevalentemente nel Mezzogiorno: questi fatti indicano in quale direzione procedere.
La prevenzione delle gravidanze indesiderate non funziona a dovere per le persone maggiormente a rischio per la giovanissima età, per l´instabilità dei rapporti, per la precarietà di vita, per la subalternità culturale.
È di questi problemi che il ministro della Salute dovrebbe preoccuparsi, misurandosi con la loro soluzione.